lunedì 21 gennaio 2019

In memoria della Shoah

Nelly Sachs


Der Chor der Geretteten ( trad.Il coro dei superstiti) ( 1961) Il Coro dei superstiti contenuta nella raccolta Al di là della polvere (trad. Fahrt ins Staublose) (1961), è un amara riflessione sull’impossibilità di chi è sopravvissuto alla Shoah di condurre un’esistenza libera dai traumi inferti dai nazisti al popolo ebraico.
Noi superstiti
dalle nostre ossa la morte ha già intagliato i suoi flauti,
sui nostri tendini ha già passato il suo archetto –
I nostri corpi ancora si lamentano
col loro canto mozzato.
Noi superstiti
davanti a noi, nell’aria azzurra,
pendono ancora i lacci attorti per i nostri colli –
le clessidre si riempiono ancora con il nostro sangue.
Noi superstiti,
ancora divorati dai vermi dell’angoscia –
la nostra stella è sepolta nella polvere.
Noi superstiti
vi preghiamo:
mostrateci lentamente il vostro sole.
Guidateci piano di stella in stella.
Fateci di nuovo imparare la vita.
Altrimenti il canto di un uccello,
il secchio che si colma alla fontana
potrebbero far prorompere il dolore
a stento sigillato
e farci schiumare via –
Vi preghiamo:
non mostrateci ancora un cane che morde
potrebbe darsi, potrebbe darsi
che ci disfiamo in polvere
davanti ai vostri occhi.
Ma cosa tiene unita la nostra trama?
Noi, ormai senza respiro,
la nostra anima è volata a lui dalla mezzanotte
molto prima che il nostro corpo si salvasse
nell’arca dell’istante –
Noi superstiti,
stringiamo la vostra mano,
riconosciamo i vostri occhi –
ma solo l’addio ci tiene ancora uniti,
l’addio nella polvere
ci tiene uniti a voi.

lunedì 16 gennaio 2017

Concorso di scrittura epistolare per Studenti siciliani :Scrivere a Maria Occhipinti

Concorso di scrittura epistolare per Studenti siciliani


http://edizioniarianna.it/premio-di-scrittura-epistolare-studenti-siciliani/



Ma chi era Maria Occhipinti?

Povera, combattiva, di sinistra, la giovane ragusana Maria Occhipinti
(1921-1996) non si capacitava che a chiuderla in galera in quel gennaio 1945
fosse la nuova Italia democratica e antifascista. Lei figlia di un muratore
e di una cucitrice, costretta a lasciare la scuola a dispetto dell'amore per
i libri, lei con la sua storia di sofferenze e riscatto, dall'infanzia
difficile alla guerra, da una gravidanza di stenti alla morte della bimba
appena nata, dalla ripresa degli studi all'approdo al comunismo, alle grandi
speranze all'arrivo degli americani, alle lotte contro il carovita. Quasi un
prototipo di biografia militante da portare a esempio - ma solo fino
all'inverno '44-'45, quando il governo Bonomi emana i bandi di leva per un
contingente da affiancare alle truppe alleate: al nord partigiano si addice
il volontariato, al sud toccano le cartoline rosa. Di fronte alla renitenza
generalizzata in tutto il centro-sud e nelle isole, si passa ai
rastrellamenti casa per casa e alle retate, e ne nascono scontri
violentissimi con migliaia di arresti, decine di morti e feriti. E' la
rivolta chiamata dei "non si parte", che cambia segno alla vita di Maria.
Sulla provinciale di Ragusa il 4 gennaio 1945 avanzava un camion carico di
ragazzi catturati nel popolare quartiere "Russia"; e tra la piccola folla di
donne disperate c'era lei, incinta di cinque mesi, che quattro anni prima
aveva visto partire il marito e ora, decisa a non sopportare piu' che lo
stato si impadronisca dei giovani, si stende davanti alle ruote, dando il
via alla fuga dei rastrellati. Comincia cosi' la breve epopea della citta',
e comincia la repressione giudiziaria. Identificata come leader, Maria e'
portata al confino a Ustica, dove partorisce la sua seconda bambina e
rischia di perderla per mancanza di cure, poi al carcere di Palermo. Quando
esce per amnistia, il 7 dicembre 1946, scopre che il marito l'ha
abbandonata, peregrina per molte citta', in Svizzera incontra un mondo
diverso, che le sembra piu' adulto, piu' rispettoso ed equilibrato nei
rapporti uomo/donna e che le fa apparire gli uomini siciliani "piccini,
quasi balbettanti". Resta fuori d'Italia per molti anni, mentre sulla lotta
dei "non si parte" c'e' un generale silenzio.
All'estero lavora duramente, ma trova il tempo di scrivere Una donna di
Ragusa, meta' autobiografia meta' cronaca della rivolta. Racconta i
protagonisti, studenti, donne, contadini, reduci da tutti i fronti, molti
socialisti e comunisti. Spiega che semplicemente nessuno voleva piu' saperne
di fare la guerra, tanto meno per Vittorio Emanule e Badoglio; che nessuno
credeva piu' sulla parola a chi prometteva un esercito diverso, epurato
dalle vecchie ingiustizie e gerarchie. Mostra quanto abbiano avuto torto le
forze politiche, compreso il suo partito di riferimento, il Pci, che hanno
liquidato la rivolta come frutto di manovre separatiste o di un rigurgito
fascista.
La calda simpatia di alcuni intellettuali, in primo luogo di Enzo Forcella,
non basta a creare consenso intorno a un testo scomodo e a una figura come
Maria, antifascista che disobbedisce agli ordini dell'antifascismo,
comunista dal cuore anarchico. Una donna di Ragusa resta a lungo un libro
per pochi , mentre nell'autrice si vede soprattutto l'erede delle donne di
ancien regime tante volte insorte a difesa degli interessi della comunita'.
in parte e' cosi'. Ma Maria e' anche una moderna ribelle che fa un gesto
imprevisto: molto prima che nascano l'interesse per la storia "dal basso" e
il mito della spontaneita' popolare, rivendica per se' il diritto di parola
e di giudizio disconoscendo a politici e specialisti il monopolio
dell'interpretazione. Dal suo racconto esce male la nuova Italia,
nordcentrica, sprezzante verso il sud, incapace di riconoscere le proprie
aporie e incline a vedere in ogni lotta "irregolare" un anacronismo o un
complotto; ne esce esaltata l'iniziativa personale, senza capi ne'
organizzazione. Ancora oggi, che abbiamo imparato a distinguere i diversi
dopoguerra e le diverse reazioni popolari, della difficilmente catalogabile
eroina di Ragusa nei convegni sulla Resistenza spesso ci si dimentica di
parlare.


http://sellerio.it/it/catalogo/Una-Donna-Ragusa/Occhipinti/407





sabato 12 gennaio 2013

ARS AMANDI – L’EDUCAZIONE SENTIMENTALE

ars amandi di maria korporal

Ars Amandi from Maria Korporal on Vimeo.
L'aria, ciò che ci avvicina e che ci separa.
Ciò che ci unisce e dispone tra noi uno spazio per noi.
Ciò in cui ci amiamo, ma che appartiene anche alla terra.
Ciò che talvolta condividiamo attraverso alcune parole ispirate.
Ma se gli alberi non possono sentirle, queste parole non sono forse un rischio di morte?
L'aria, questo luogo in cui abitare, in cui coltivare fiori e angeli.
In cui aspettarsi, nella vita, fuori o dentro, in cui respirare e contemplare ciò che ci unisce e ci divide, ciò che ci collega all'universo e rende possibile la nostra solitudine come i nostri scambi.
Materia universale del vivente.
La più necessaria, la più spirituale.
Da cui siamo nati, e che talvolta generiamo.
Elemento della nostra incarnazione e della nostra immortalità.
Del nostro passaggio dal più vicino al più lontano, della nostra propria identità e della nostra intesa.
L'aria, futuro e ritorno nei quali diveniamo senza poterci mai fermare, o così poco.
L'aria, ciò che ci dà forme dal di dentro e dal di fuori, e ciò in cui posso darti forme, se le parole che ti rivolgo ti sono realmente destinate e sono ancora l'opera della mia carne.
L'amore rimane divenendo, attira mantenendo la distanza, permette il rispetto e la contemplazione.
E' come un sole che illumina in noi e tra noi.
Appare talvolta in un gesto, un sorriso, una voce, una parola, segni di una presenza che si avvicina allontanandosi.
Indubbiamente ci siamo accostati, forse ci siamo incontrati.
Il tuo ritiro manifesta la mia esistenza, e anche il mio raccoglimento ti è dedicato.
Possa la loro intenzione essere riconosciuta da noi come un cammino che porta indirettamente a noi.
Luce Irigaray, Amo a te. Verso una felicità nella storia, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 154 e 156


 «Amare a te, e, in questo a, disporre di un luogo di pensiero, di pensare a te, a me, a noi, a ciò che ci riunisce e ci allontana, all’intervallo che ci permette di divenire, alla distanza necessaria per l’incontro.
A te: pausa per passare dall’affetto allo spirituale, dall’interiorità all’esteriorità.
Ti vedo, ti sento, ti percepisco, ti ascolto, ti guardo, sono commossa da te, sorpresa da te, vado a respirare fuori, rifletto con la terra, l’acqua, gli astri, penso a te, ti penso, penso a noi: a due, a tutti, a tutte, comincio ad amare, amare a te, ritorno verso di te, cerco di parlare, di dire a te: un sentimento, un volere, un’intenzione, per adesso, per domani, per molto tempo.
Ti chiedo un luogo e del tempo per oggi, per un futuro vicino, per la vita: la mia, la tua, quella di molti.
L’ a te passa attraverso il respiro che cerca di farsi parole. Senza appropriazione, senza possesso né perdita di identità, nel rispetto di una distanza. A te, altro, uomo. Tra noi questo a intenzione senza oggetto, culla dell’essere».
(Dalla prefazione di Maria Grazia Calandrone a: Luce Irigaray, Amo a teBollati Boringheri, 1993)


 «Amar a ti, y, en este a, disponer de un lugar de pensamiento, de pensar ‘a’ tí, ‘a’ mí, ‘a’ nosotros, ‘a’ lo que nos une y nos aleja, ‘al’ intervalo que nos facilita devenir, ‘a’ la distancia necesaria para el encuentro.
A ti: pausa para pasar de lo afectivo a lo espiritual, de la interioridad a lo exterior.
Te veo, te siento, te percibo, te escucho, te miro, me enternezco por ti, me sorprendo por ti, voy a respirar fuera, reflexiono con la tierra, el agua, las estrellas, pienso en ti, te pienso, pienso en nosotros: en los dos, en todos, en todas, empiezo a amar, amar a ti, regreso hacia ti, intento hablar, decirte: un sentimiento, un deseo, una intención, para hoy, para mañana, para mucho tiempo.
Te pido un lugar y un tiempo por hoy, por un futuro cercano, por la vida: la mía, la tuya, la de muchos.
El a ti pasa a través del aliento que intenta volverse palabras. Sin apropriación, sin posesión, ni pérdida de identidad, en el respeto de una distancia. A ti, al otro, hombre. Entre nosotros esta a es intención sin objeto, cuna del ser».
(Luce Irigaray, Amo a ti - bosquejo de una felicidad en la historia [traducción del francés, Víctor Goldstein], 1ª ed. Barcelona, Icaria 1994)

Gloria Gaetano
'Amare a te' ,e ,in questa licenza disporre di un luogo di pensiero,di pensare a te, a me,a noi,a ciò che ci riunisce e ci allontana,all'intervallo che ci permette di divenire,alla distanza necessaria per l'incontro. 'A te ' ,pausa per passare dall'affetto allo spirituale,dall'interiorità all'al-di fuori-di sè.

Ti vedo,ti sento,ti percepisco,ti ascolto,ti guardo,sono commossa da te,sorpresa da te,vado a respirare fuori,rifletto
con la terra,l'acqua,gli astri,penso a te,ti penso,penso a noi: a due, a tutti,,a tutte,comincio ad amare,amare a te,ritorno verso di te,cerco di parlare,di dire a te:un sentimento, ,un valore,un'intenzione,per adesso per domani per molto tempo.
Ti chiedo un luogo e un tempo per oggi,per un futuro vicino,per la vita: la mia, la tua, quella di molti. L' 'a te' passa attraverso il respiro che cerca di farsi parola.Senza appropriazione,senza possesso nè perdita d'identità,nel rispetto di una distanza:' A te' , altro, uomo...."
Tra noi, l'intenzione di avvicinarsi per un po' al mare con la sua potenza,la sua immensità ,il suo respiro,il suo odore salato. Ma il mare è anche leggenda,sogno,poesia, musica,rappresentazione del nostro mondo interiore.. Nel mare vediamo scorrere il suo prima e il suo dopo,il compiuto e l'incompiuto,l'esplicito e il mistero.
E nel mare troviamo anche il viso della persona amata,che si veste con l'abito della luna,diventando ombre e segni estranei,preda di quel mistero
che avvolge da sempre il movimento delle onde e della vita.

Per un attimo è stato così.

amo a te
non gli altri me lo rivelano
ma io lo dico a me
senza che queste parole siano 

la sola verità,
che è nell'amarti.
Sillabo le lettere,
come un risveglio, un nascere nuda
nuova,
per ripeterlo a me..

Me lo sussurrano le carte candide, il cielo, 

le musiche dell'aria,che s'incontrano
aprendo 

i misteri notturni.
Attraverso l'alba lucente.

Se mi vedo nello specchio
non ci sono io
ma un amare a te.
E il mondo mi grida o sussurra
questo mio amare
in profondo oscuro..

A volte vorrei dirtelo
amo a te, ma non è che una traccia scura, 

un piccolo pezzo
una frase scritta,un suono tronco
diviso tra la schiuma
che sbiancheggia
d'amore, in musica, 

in mare assoluto
— 


IL testo parla d'amore, amore delle donne per gli uomini e degli uomini per le donne, un amore che le donne di oggi sono invitate a rienventare: non più rivendicazioni di uguaglianza e non più separatezza, dunque, ma l'apertura a un rapporto che elimini ogni sfumatura di possesso. Non più "io ti amo", "io amo te", ma "amo a te", dove la "a" indica il riconoscimento di una differenza, di una irriducibilità e anche l'esitazione piena di rispetto di fronte al mistero dell'altro, un silenzio, una rinuncia a ogni forma di appropriazione: è il modello di una nuova forma di rapporto fra i sessi e di un nuovo modo di amare.
da Luce Irigaray

Alma Passarelli   Pula
Prende forma l'esser pulsante in millestorie mute tracce polveri tra insoluti rami corpo senz'arti nutre cuore arrivano eteree parti di me resina compone e ricompone quell'unico viaggio avventura eterna il vivere nella luce nelle tenebre nel tempo del cielo unisco mani sfiorando solitudine d'altro stampo colore sdoppiato scorre spezzo lo specchio senza sapere dove la fine. Alma Passarelli pula
La notte dell’armonia della grande Marcia Theophilo 
nella foresta esistono
più occhi che foglie
più cuori che pietre
è la notte dell'armonia
una notte soltanto
una notte dell'anno
e non si sa quale
i cuori di tutti gli animali
si accendono luminosi
scompaiono i corpi
e tante luci vagano nel bosco
quante le stelle nel cielo
è la notte dell'armonia
non si divorano, né si conoscono
si incontrano il giaguaro e il tapiro
il coccodrillo e il pirarucù
il tucano e l'anaconda
la farfalla e l'iguana
il falco reale e il macaco
è la notte dell'armonia
per una notte soltanto
nella foresta esistono
più occhi che foglie
più cuori che pietre. 





Viviana Scarinci L’amore è una bestia cronica

Se l’amore fosse tutto occhi e gli occhi fossero due bambini
litigiosi fino voltarsi le spalle, sarebbe la cecità
il colore che li comprende smetterebbe l’agitazione
prosciugato nella secca di una forra, un botro profondissimo
scavato dal ricordo dell’acqua
se gli occhi fossero due bambini
nello spavento notturno non sarebbero due spille spiaggiate
che appuntano ferite alla luna ma la sagoma offesa di un relitto
se gli occhi si svestissero sarebbe due fantocci che celiano il firmamento
e se l’amore fosse uno sguardo sarebbero un ragazzo che non vuole niente
forse l’amore è lo schianto per fusione di una differenza
che pure non pensa al confronto, sul marciapiede del risveglio
gettata com’è senza preavviso, né sussistenza che pure
devi garantire al corpo, nonostante la deflagrazione
con le sue anomalie di lunga e corta gittata, corta come l’amore
compulso che becca doloso la distanza
dal precedente identico, per farsi senza precedenti l’unico
fatto commensurabile, e lunga lunghissima gittata il travaglio
orizzontale che ne viene
l’amore è una bestia cronica che sembra un giocattolo
l’amore è un organo inflazionato
una fluttuazione drenante il corpo su scenari vacui
l’amore scompone gli oneri inconsulti delle piccole piaghe, dissangua
senza fine memorie capovolte a svuotarsi
forse l’amore è una chimera che non assolve i fatti, anzi li assorbe
nella spugna capovolta dei sogni, come l’appetenza vuota
e lontana di un trogolo infiorato tra le fanghiglie duttili e lussureggiante
e l’inciso pacioso di un grugnito che significa tutto
forse è il porco di peso sollevato al giogo delle altezze che mente franchigie superiori
o la lingua sonora di una decade di grigi riarsi
che slavano il basso della torba con un’eco di vetro e polveri
scomposte nella facezia del cammino
forse l’amore è un’allergia che poi entra in gioco
una ferma miscredenza sull’allergene che gli confonde i fiori
che lo estenua e che lo finge che lo arde di continuo sotto le meningi
lo buca, lo inghiotte, prolifera muco nei turbinati convulsi
e nell’unica profumazione sua, lo respira
forse l’amore è questa mattanza nel profondo delle labbra
nonostante il risaputo sia querulo come il pantalone stellato
con cui non osi dormire
è la gorgiera scollata di ogni decadenza
e il cane inalberato del distacco
è la preghiera che pregando espia
il pregato Il lacerto, il travaglio fobico di un copione strappato Il sandalo
sfatato che calza discordia, la colonna obliterata delle scelte
la scapola crollata che astiene un vagito sorridendo
 

nugae11
il testo si apre alla filo-Sophia,all'amore sapienziale e il pensiero immergendosi in questa esplorazione amplia il proprio sguardo inevitabilmente dando voce all'animo umano che nel corso della storia si è scisso in se stesso (Amore e Psiche),ma ridurre il molteplice all'uno è il filo conduttore del testo........

così
In limine ti cerco
dentro la gomena che sfugge
al controllo della sera
ti cerco
nei rigori di un tempo che invade
le tempie a doppia lama
i sapori di labbra tra cardini di traversate
come nuvole nel loro esodo
ti cerco
nel grembo di paese in quel soffio
tempestato di suoni
*
dentro il cerchio zampilla
frescura sotterranea di gemma
ti cerco
su fiori di glicine
vibrano di nuovi sensi
nemici di foglie
tendono al mutamento per un gesto solo
una sete avanza nel respiro
sconfina su varchi per un sogno di nascita
*
in limine ti cerco per lungo spazio
in grazia di un anelito
mano che sfiora l’arcobaleno
anche per un momento
nel tuo esistere
(Maria Allo)







Gloria Gaetano
Quasi sempre ,oggi ,l'intimità è cercata per sè e non per l'altro, l'individuo non esce dalla sua solitudine e tanto meno dalla sua impermeabilità, perchè nell'intenzione di reperire se stesso nell'amore egli ha bloccato ogni moto di trascendenza, di eccedenza, capace di mettere in gioco la sua autosufficienza intransitiva e di aprire un breccia, una ferita nella sua identità protetta. Una sorta di rottura di sè perchè l'altro lo attraversi, questo è l'amore. Non una ricerca di sè ma dell'altro, che sia in grado di spezzare la nostra autonomia,di rompere le nostre difese:l'altro,infatti, se non passa vicino a me come noi passiamo vicino ai muri, mi altera. E senza questa alterazione, che mi spezza, mi espone, come posso essere attraversato dall'altro, che è poi il solo che può consentirmi di essere ,oltre che me stesso, altro da me? L'amore non è ricerca della propria soggettività, ma espropriazione della soggettività, è concedersi a un trascinamento, perché solo l'altro può liberarci di una soggettività che non sa che farsene di se stessa. Cos'è questo desiderarsi degli amanti, se non un violare i loro esseri nella speranza di accedere a quel vertice morale che è la comunicazione vera, al di là di quella finta comunicazione cui ci obbliga la nostra cultura dell'efficienza,? Amore è spazio dell'immaginazione dell'altro, luogo di libertà, l'unico forse, quasi d'anarchia. Il che include anche sofferenza e dolore. Perché sempre il sovvertimento della stabilità comporta rischio di sofferta violazione dell'integrità. E' toccare con la mano i limiti dell'uomo. Perciò non si può parlare di condivisione, tradimento di promesse mancate, di sogni naufragati. L'amore è vita, con tutto ciò che comporta, e non arroccarsi nella neutra sopravvivenza. Se ami sai distinguere la vita dal supporto biologico e dal sentimentalismo, sai recuperare senso e sensibilità. Se l'amato è accanto a te, tutto risorge e la vita ti inonda, ti apre alla piena del fiume. Quindi a tutto, anche alla sofferenza, alla gioia, al sentire.
 Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero di esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l’altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri.(R. Barthes).

 Si sta facendo sempre più tardi “Mia cara Amica, vorrei poterVi dare appuntamento in un altro caffè che non fosse quello sbagliato, dove ci siamo aspettati invano. Ma non so dove si trovi. E temo che più che un comune caffè sia il Caffè con la maiuscola, la sua immagine eterna e immutabile, una specie di idea platonica di Caffè dove il caffè non lo servono.” (Antonio Tabucchi).
Lydia Davis, una delle più raffinate scrittrici contemporanee, per lo stile folgorante, la chirurgica esattezza delle descrizione, la grazia sottile con cui ricostruisce le chimiche complesse delle relazioni umane. Perfette luminose ed essenziali short stories che hanno la capacità di raccontarci i notri sentimenti, le situazioni inconfessabili, stravaganti ma vere. Ecco un esempio:  Il fatto che lui non mi dica sempre la verità certe volte mi fa dubitare che sia sincero, e allora mi sforzo di capire da sola se quello che mi dice è vero o no, e a volte capisco che non è vero e a volte non lo so e non lo saprò mai, e a volte solo per il fatto che lui me lo continua a ripetere, mi convinco che è vero perché non credo che mi ripeterebbe tanto spesso una bugia. Forse la verità non è importante, però vorrei saperla anche solo per poter giungere ad alcune conclusioni riguardo ad alcune domande, quali: se è arrabbiato con me o no, se lo è , allora quanto; se la ama ancora o no, se sì, allora quanto; se sì allora quanto; quanto è capace di ingannarmi nei fatti e dopo i fatti a parole.

Esiste qui una situazione tipica: l'inganno la menzogna, il dubbio, non tanto la gelosia. E' un problema di comunicazione in un amore, che forse è alla fine, che può invece continuare. Un intermezzo di equilibrio precario, un po' sofferto ma non ancora doloros0.


Gloria Gaetano
Prima che tu mi mentissi in maniera così spaventosa (d'altronde, che tu vi sia riuscita rimane nella mia esistenza d'uomo l'unica cosa di cui arrossisco), prima dunque che tu mi
mentissi, la mia verità, il mio amore (in breve, autentico e sincero) ti avevano comunicato l'impulso che ti ha determinata
mentirmi, e ti ha permesso anche di accedere a questa maturità di cui ti vanti e che mi opponi ormai. Così, per tutta la tua vita, anche nei doni che ti faranno tuo marito e i tuoi magnifici figli, io sarò ancora in te attraverso il tuo primo sussulto, il tuo primo oblio di te stessa. Sarò il tuo primo moto, non
sognato ma reale, rimarrò il tuo iniziatore, prodigo di doni.
(da Jutta di Lou Andreas-Salomé)

Lou Salomé fu una scrittrice e psicoanalista (allieva di Freud), con radici tra San Pietroburgo e la Germania, passò come la «grande rivoluzione russa» nella vita di Nietzsche. Di lei era innamorata anche Rilke. Questi personaggi, al pari del filosofo Paul Reé, amico del cuore di Nietzsche, e di Friedrich Carl Andreas che Lou sposerà, sono il coro attorno alla protagonista dell'opera: lei. «Un'eccezionale donna ebrea - dice Silvia - uno spirito libero che è alla ricerca di Dio e soprattutto di se stessa, chiamata a dare risposta ai quesiti legati al senso della vita. Alla fine ne accetterà il limite e dirà sì alla morte, con un certo senso di serenità». Lou Salomé era nata nel 1861, l'anno in cui in Russia si liberarono i servi della gleba. Lei assiste alla partenza di milioni di persone verso una libertà sconosciuta. Questo racconta il primo atto, dopo il prologo in cui appare alla fine della propria esistenza. E medita, sogna ricorda mentre davanti a lei risorgono lacerti di memorie, pensieri, visioni». La narrazione procede in una serie di quadri che si succedono l'un l'altro, ispirati alle memorie di Lou



Jutta è un romanzo di formazione.
1) cosa significa romanzo di formazione?
2) Elencate i titoli e i personaggi dei libri di formazione che avete letto.
3) Qui si parla di menzogne e tradimenti, infedeltà. E' opportuno analizzare insieme il motivo dell'infedeltà o , secondo voi, l'infedeltà innalza un muro tra due persone.?
4) fa perdere irrimediabilmente la fiducia e la complicità tra due persone?
5) etimologia della parola tradire.


Gloria Gaetano
Luisa Muraro

La scrittrice brasiliana Clarice Lispector, che mi fa da guida così come Virgilio a Dante nell’inferno, alludendo al suo matrimonio, in una lettera alla sorella fa questa confessione: “Mi sono dovuta tagliare gli artigli - ho tagliato in me la forza che avrebbe potuto far male agli altri e a me stessa. E così ho tagliato anche la mia forza” (Berna, 6 gennaio 1948).
Quest’immagine e il contesto che l’ha ispirata hanno chiarito il mio punto di vista. Non parlo pro o contro la violenza in sé. Non parlo neanche per i perdenti e le vittime del confronto basato sui rapporti di forza. Quello che ho in mente è quella regione dell’essere dove la forza diventa violenza senza soluzione di  continuità. Non dico che è un bene o un male, questa regione semplicemente esiste cosi come esistono le unghie.
I filosofi lamentano che confondiamo tra loro concetti diversi come potere, dominio, forza, violenza. D’accordo, troppo spesso si fa una simile confusione. Ma quando, per tutta risposta, si mettono a darci le loro accurate definizioni, vorrei dirgli: prima di ciò, dovreste piuttosto indagare dove e perché nasca la con
fusione. E chiedervi se per caso quella che appare una confusione non sia la manifestazione di qualcosa che fareste bene a guardare più da vicino. Rileggete quel capolavoro racchiuso in poche pagine che è L’Iliade poema della forza di Simone Weil.

Secondo Clarice Lispectos, l'atto di addomesticamento, il tagliarsi le unghie, simbolicamente, significa anche perdere la propria forza di reagire, di opporsi e ribellarsi.
Le donne devo riacquistare la forza e la capaità di dire no, non assoggettarsi e obbedire. E' questa nostra condiscendenza al maschio che ci ha tolto tutto, mentre dobbiamo riprenderci forrza e violennza.Che è poi una violenza sistemica, non brutale, per ritrovare tutte le nostre poetenzialità e affermarle con vis polemica, con violenza, perchè altrimenti rimaniamo immobili.No si vive solo per il presente...


L’amore è abbastanza grande
da includere una frase letta in un libro,
la linea di un collo visto e desiderato tra la folla,
un viso amato e desiderato al finestrino di un metrò che sfreccia via.
È abbastanza grande da includere un amore passato,

un amore futuro, un film, un viaggio,
la scena di un sogno, un’allucinazione,
una visione.
"
( Anais Nin).

Floriana Coppola
Nella scena liquida che si svolge e dipana centomila sensi, ci sono energie palesi, invisibili, perfette che si duplicano e si sovrappongono nelle linee appena disegnate da Marie Korporal. Posso lasciarmi andare alle dita/rami che entrano inviibili antenne nella testa/pianeta della donna, danzano una penetrazione ancestrale che non è possesso ma fluido e complice amplesso senza la forza ritmica del coito ma seguendo la dolcezza di un avvicinamento sensuale che lascia entrambi uniti ma autonomi. Ogni elemento del maschile e del femminile non si impone ma si cerca, si corteggia in una ambiguità leggera e autentica che non vuole fermare l'altro o l'altra, lasciando liberi il respiro e la forma. C'è in questo movimento naturale la seduzione infinita di un sentiero da percorere insieme senza perdere essenza e presenza.L'invenzione virtuale di una alchimia d'amore che non riusciamo ancora a sperimentare ma che rimane una chimera onirica per ognuno di noi... 

nugae11
un condurre quasi per mano ,un'autentica pulsione nella liquidità della vicenda esistenziale destinata a farsi profezia....

Di Giovanna Sicari due belle poesie d'amore   Vorrei prenderti e chiederti e avere
come si chiede alla morte di parlare
avere ancora calore ancora guardare il taglio
dei tuoi occhi bellissimi, guardando per sempre
come si fissa uno sguardo che non vuoi che svanisca
e ridere e sorrider insieme a quelle parole
rare che poi cadono
e poi ancora perdersi e lottare
con te pronto, insistente, senza indugi
perchè tu comprendi la nostra vita incompresa,
quel distillare vita ogni giorno
a te tutti i pensieri, tutte le poesie
le scrivo pensando a quando la marea ci divide
oltre tutti i mali scomposti
e questo mi trattiene nelle mani
mi spinge a chiedere altra vita, altri alberghi
le nostre case invisibili del cuore
e così ogni nostra carta troverà il suo posto
e gli amici giusti pregheranno per noi.
*
Dammi, dammi un amore che obblighi
al silenzio, che abbia ossigeno e ventate
secondo l’uso del corpo e della mente, che possa
entrare nella cruna celeste al ritmo veloce del fuoco.
Dammi il fuoco dell’altra verità
- aggiungi, aggiungi e più riceverai! –
Venga tutta la verità benedetta
degli astri essenziali, degli atomi radianti
risana cellule e radici in questa legge mortale.
(da Poesie di Giovanna Sicari, Taranto 1954 - Roma 2003)
Maria Allo


Gloria Gaetano
Nulla di più complesso:
perché è inverno,
perché è estate;
per eccesso di lavoro
o per troppo tempo libero;
per debolezza,
per forza,
per bisogno di sicurezza,
per amore del pericolo;
per disperazione,
per speranza;
perché qualcuno non ti ama,
perché qualcuno ti ama.
(Simone De Beauvoir)


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LE DECLINAZIONI DELL'AMORE DI MARIA KORPORAL

Una sinestesia di straordinaria intensità ,sognante e malinconica ,unificazione di senso:”Amore ,mio duro idolo le tue braccia tese verso di me sono vertebre di ali.Ho fatto di te la mia virtù; in te accetto di vedere una dominazione, una potenza .Mi affido a quel terribile aereo alimentato da un cuore.” Baudelaire

Pensando all'amore e alla sessualità,siamo quasi istintivamente portati a considerarli”dati” naturali e perciò invariabili. Tendiamo quindi ad attribuire a uomini e donne del passato, o appartenenti ad altre culture , il nostro stesso modo di amare e di concepire sentimenti e pulsioni.
Ma le cose non stanno esattamente così:i comportamenti amorosi e sessuali si caratterizzano, al di là di una comune base biologica,per una preponderante dimensione culturale e quindi ,come gli studi antropologici e storici hanno ampiamente dimostrato , mutano in modo radicale con il succedersi delle epoche, con il variare delle società e delle civiltà.

Maria Allo


Gloria Gaetano
Non sarebbe male poterlo imparare: come si fa a non lasciare la mano dell'altro. Si potesse insegnarla a scuola, una cosa di questo tipo. Lezioni su come impedire al mondo assurdo di rendere assurda anche la nostra vita amorosa.

In realtà, i legami tra i corpi delle persone sembrano farsi sempre più imprendibili, scivolosi, lubrificati, mentre la gran parte delle lezioni amorose-fisiche disponibili è costituita oggi dai filmini porno in rete. C'è qualcosa di complementare nel voyeurismo mediatico verso le immagini delle sommosse urbane, macchine bruciate, ragazzi in scarpe da ginnastica che sfondano vetrine sotto gli scatti dei fotografi, e le immagini dell'ennesima ammucchiata o gang bang. In entrambe le situazioni, un bacio sembra impossibile.

I corpi. Da decenni la pornografia insegna ai ragazzi l'anatomia dei corpi e dei loro incastri. Abbiamo in molti di questi ricordi: andare con gli amici a caccia di riviste porno dietro qualche casolare di periferia. Le pagine appiccicate dallo sfogo di qualcun altro. Oggi l'impero del porno non ha confini, ci si può appassionare alle prodezze di una pornoblogger coreana o selezionare su youporn i gusti più specifici. La sessualità del mondo che si affaccia in una stanza. Dice uno degli ultimi fascicoli del Censis, parlando dei giovani che sviluppano dipendenza dalla rete: "Per questi soggetti l’uso di internet assume i caratteri di una pulsione irrinunciabile […], il prevalere di una dimensione quasi esclusiva di autoreferenzialità che preferisce fare a meno del rapporto con l’altro, anche nella sessualità.” Troppe seghe, insomma, secondo il Censis.

Come insegnano i romanzi, a partire dall'Educazione Sentimentale di Flaubert, ogni educazione amorosa è anche politica, sociale, storica. Viviamo abbracciati alla nostra epoca e un'educazione porno di massa corrisponde a una società intimamente porno. Eppure non smettiamo di sognare che quel bacio o quel tenersi per mano siano possibili. E che nel mezzo del fumo e della battaglia qualcuno ci cercherà; ci abbraccerà; ci amerà.






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Turbamento di Anna Achmatova

La luce incandescente soffocava,
e i suoi sguardi parevano raggi.
Ebbi solo un sussulto:
quest'uomo può domarmi.
Si inchinò... dirà qualcosa...
Il sangue deflui' dal viso.
Come pietra tombale,
posi l'amore sulla mia vita.

2
Non ami, non vuoi guardare?
Ah, come sei bello, maledetto!
Fin dall'infanzia ho avuto ali,
ma ora non posso spiccare il volo.
Una nebbia mi vela la vista,
vi si confondono cose e volti,
ed è soltanto un tulipano rosso,
il tulipano che porti all'occhiello.

3

Come vuole semplice cortesia,
mi si fece vicino, mi sorrise,
tra carezzevole e indolente,
mi sfiorò con un bacio la mano,
e mi guardarono le pupille
di misteriose, antiche effigi...
Dieci anni di palpiti e grida,
tutte le mie notti insonni
le riposi in una parola sommessa,
pronunciata invano.
Te ne andasti, e di nuovo
l'anima è vuota e chiara.

Nella lirica di Anna Achmatova, il sentimento si rivela linguaggio semplice e intellegibile.I sentimenti dell'amore sconvolto si alternano a similitudini di grande efficacia ed a notazioni apparentemente
insignificanti:la risoluzione infelice dell'incontro, in parole di calma forzata e di angoscia contenuta, consente all'anima il recupero della chiarezza, ma confina anche nel deserto. 


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INDIZI di MARINA CVETAEVA

Come spostando pietre:
geme ogni giuntura! Riconosco
l’amore dal dolore
lungo tutto il corpo.

Come un immenso campo aperto
alle bufere. Riconosco
l’amore dal lontano
di chi mi è accanto.

Come se mi avessero scavato
dentro fino al midollo. Riconosco
l’amore dal pianto delle vene
lungo tutto il corpo.

Vandalo in un’aureola
di vento! Riconosco
l’amore dallo strappo
delle più fedeli corde
vocali: ruggine, crudo sale
nella strettoia della gola.

Riconosco l’amore dal boato
- dal trillo beato -
lungo tutto il corpo!

Una vibrata tensione emotiva caratterizza la lirica di M. Cvetaeva.In essa l'amore si fa riconoscere attraverso la sofferenza del corpo,la solitudine,l'alterazione crudele e rabbiosa della voce, per trasformarsi poi in beatitudine musicale e dinamica, che innerva il corpo intero.


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COME POSSO DIRE…
Come posso dire se la tua voce è bella.
Come posso dire... di Karin Boye

So soltanto che mi penetra
e mi fa tremare come una foglia
e mi lacera e mi dirompe.

Cosa so della tua pelle e delle tue membra.
Mi scuote soltanto che sono tue,
così che per me non c'è sonno né riposo,
finché non saranno mie.

Nella lirica di Karin Boye l'innamorata rinuncia ad ogni definizione oggettiva della voce e dell'aspetto dell'amato,per sostituirvi le proprie emozioni di dilaniata fragilità. Pensa nel tremito che la smarrisce,la donna sa che la quiete potrà consistere solo nel possesso che appaga.



Daniela Cattani Rusich


[Universi concatenati (Universi e mente) - foto di Antonio Limoncelli]




Segreta
Arrenditi fra le mie braccia fragili,
scivola piano ai bordi del mio cuore;
io ti ho nascosto ormai tra mille angoli
e nevica un silenzio che assassina...
Assolvimi per questo cielo inutile
pieno di voli e abissi senza scampo:
ricorda che bellezza non perdona,
svicola serpe in fondo ai desideri.

E quel che è stato è cibo per i cani
- ruvido istinto che incatena ai limiti -
Volgi lo sguardo, la tua strada è libera:
assolo e dissonanza ancora tiepidi.

Tutto mi tace intorno come l'ombra
del mondo, che si allunga sulla via.
Gli occhi di un cieco, tu, li hai mai guardati?
Sono rivolti al sogno, che non muta!

Conta solo il respiro, mentre il tempo
ignaro, arresta il passo sulla soglia.
Nevica adesso, e ormai s'è fatto tardi...
la parola soltanto gronda sangue.
Segreta.


Deborah Mega
E’ innegabile la purezza, l’equilibrio e la musicalità di questi versi pur nella loro sincerità e concretezza di forma e contenuto. Su quest’ultimo mi soffermerei perchè toccante e appassionato tanto da restare inciso nell’animo del lettore. 
Partiamo dalla chiusa. La parola è uno strumento espressivo importantissimo, duttile, efficace, rivelatore dei moti più intimi.
Qui è talmente vera da grondare sangue. 

Nei primi versi è da rilevare la potenza dell’ossimoro; “ Arrenditi” si dice a un tu immaginario, “fra le mie braccia fragili”, dunque si intima un comando ma si ammette contemporaneamente la propria fragilità; segue poi una personificazione bellissima, “il silenzio nevica e assassina”.
Si chiede assoluzione, perdono per l’inutilità delle proprie ambizioni, per la vanità dei propri desideri e per il crollo in certi abissi, gli alti e bassi che tutti ci ritroviamo a vivere. Ora c’è silenzio intorno ma occhi e pensieri sono rivolti al sogno, all’infinito, lo stesso che i ciechi possono solo immaginare, quello che cerchiamo di trattenere con tutte le nostre forze mentre il tempo,ignaro, continua la sua corsa. 

Tra le dita sembra che sia rimasto poco, dell’amore è rimasta solo la componente istintuale ormai divenuta “cibo per i cani”, che trattiene ancora alle cose terrene, ai limiti. Ma se la parola “gronda sangue”, non si deve temere di restare incatenati ai limiti, perché diviene il mezzo, il tramite che va oltre le cose terrene, raggiungendo un’universalità per la quale vale la pena vivere. In questa poesia infatti avviene il superamento di quella dimensione intimistica a cui molti si fermano: infatti partendo da una situazione contingente si giunge ad una onesta, palpabile comunicazione con il fruitore, ad un vero e proprio rapporto che la scrivente cerca con l’altro da sé, un rapporto fatto di empatia, di immedesimazione, di correlativi oggettivi e che fa la differenza rispetto ad altre liriche, perché risulta più convincente.




















Amore e Psiche

(Amore e Psiche di Irene Lasalvia)

Una delle grandi fiabe della letteratura classica, quella di Amore e Psiche, che si trova nel cuore delle Metarmorfosi di Apuleio di Madaura 125-180 d.c.), una superba creazione letteraria, che ripercorre temi, contenuti e simboli delle leggende di tradizione orale. Psiche in greco significa anima, soffio, respiro vitale e la sua vicenda è la metafora della storia dell’anima umana che, solo attraverso un duro cammino, potrà raggiungere la purificazione e la sfera del divino, ma anche della forza travolgente del’amore, in grado di superare le prove più ardue e difficili.
 (La favola di Amore e Psiche, il manifesto, supplemento del 9 dicembre 2012)

C'erano una volta in una città un re e una regina, che avevano tre figlie bellissime.
Le due più grandi, anche se molto belle, si poteva riuscire ad esaltarle con parole umane, mentre la bellezza della più giovane era così straordinaria, così fuori del comune che il linguaggio umano appariva insufficiente e povero non solo a descriverla, ma anche solo a lodarla.
Così molti cittadini e molti forestieri accorrevano in gran numero attratti dalla fama di quella bellezza rara, e a vederla così incantevole restavano stupefatti ad ammirare quel meraviglioso prodigio: accostavano la mano alla bocca con l'indice sul pollice disteso e la veneravano stando in adorazione, come avrebbero fatto dinanzi alla stessa Venere1.
Nelle città vicine e nelle regioni attigue si era già sparsa la voce che la dea nata dall'abisso azzurro del mare e nutrita dalla rugiada delle onde spumeggianti era discesa sulla terra e si aggirava tra la gente concedendo a tutti la grazia della sua divina presenza, o che invece non il mare ma la terra stavolta aveva prodotto da un nuovo germe di stille celesti una nuova Venere, fiorita nell'incanto della sua verginità.
Di giorno in giorno la sua fama andava crescendo smisuratamente e si propagava diffondendosi nelle isole vicine e da un luogo all'altro nel continente. Già molta gente intraprendeva lunghi viaggi attraversava profondi tratti di mare per vedere quella grande meraviglia del secolo. Nessuno andava più a Pafo, nessuno a Cnido e neppure a Citera ad adorare la dea Venere; i sacrifici venivano rinviati, i templi erano in abbandono, i sacri letti calpestati, le sacre cerimonie trascurate; le statue erano lasciate senza corone di fiori, nessuno si accostava più agli altari, imbrattati di cenere spenta.
Invece si invocava una fanciulla, nel cui aspetto umano si intendeva adorare una dea; e la mattina quando la fanciulla appariva, veniva venerata con sacrifici e offerte al posto di Venere; quando poi passava per le piazze, il popolo assiepato le rivolgeva preghiere e lanciava fiori sciolti o legati in mazzetti.
Questo esagerato trasferimento di onori divini ad una fanciulla mortale irritò terribilmente l'anima della vera Venere, che, fremente di sdegno e scuotendo la testa, piena di indignazione, così diceva tra sé: "Io dunque, madre antica della natura, io origine prima degli elementi, io, la Venere che nutre tutto l'universo, sono costretta a dividere con una fanciulla mortale la gloria della mia maestà? E il mio nome celebrato nel cielo è profanato da nefandezze terrene! E devo sopportare che a una sostituta si facciano sacrifici e che una ragazza destinata a morire porti in giro la sua persona come se fosse la mia immagine! Invano dunque quel pastore
la cui giustizia e lealtà fu approvata dallo stesso sommo Giove, mi scelse a preferenze di dee tanto grandi per la mia singolare bellezza? Ma non durerà a lungo nella sua felicità costei, chiunque essa sia che si sta godendo gli onori a me dovuti! Ci penserò io a fare in modo che debba pentirsi perfino della sua illecita bellezza".
E senza por tempo in mezzo chiama quel suo figlio alato e scanzonato il quale, non curandosi della pubblica moralità coi suoi cattivi costumi, va in giro di notte armato di frecce e di fiaccole nelle case degli altri, profana i letti nuziali e impunemente ne combina di tutti i colori, senza fare mai niente di buono. Già per natura sfrenato e insolente divenne ancora più forsennato in seguito ai discorsi che gli fece la madre, che poi lo condusse in quella città, gli fece vedere da vicino Psiche (questo era infatti il nome della fanciulla), e dopo avergli raccontato tutta la storia di quella specie di concorso di bellezza, gemendo e fremendo di sdegno gli disse: " Io ti scongiuro per il tuo affetto di figlio che mi devi, per le dolci ferite delle tue frecce, per le soavi bruciature che fa la tua fiaccola, vendica tua madre, ma di una vendetta completa, e punisci duramente quella bellezza arrogante. Tu devi fare una sola cosa: far innamorare perdutamente questa fanciulla di un uomo che sia il più vile di tutta la terra, un uomo che il destino abbia condannato alla povertà, al disprezzo di tutti, alla galera, e che sia tanto abietto da non potersi trovare in tutto il mondo un miserabile come lui".
Detto questo baciò a lungo il figlio stringendoselo stretto, poi si diresse alla spiaggia vicina battuta dalle onde, e sfiorando coi rosei piedi la tremula superficie delle acque, si fermò all'asciutto sopra l'alto mare profondo. E subito, non appena ella lo volle e come se l'avesse da tempo comandato, venne a lei l'ossequio del mare: le si fecero intorno le Nereidi cantando in coro, e Portuno con la sua barba ispida e azzurra, e Salacia col grembo traboccante di pesci, e il piccolo Palemone a cavallo di un delfino. I Tritoni saltavano a schiere qua e là sul mare: uno zufolava dolcemente in una conchiglia sonora, un altro con un drappo di seta la riparava dal calore eccessivo del sole, un altro ancora teneva uno specchio sotto gli occhi della dea, altri ancora a pariglia nuotavano tirando il suo carro. Questo corteo accompagnava Venere verso l'Oceano.
Frattanto Psiche non ricavava alcun frutto da quella sua bellezza straordinaria di cui era ben consapevole. Era guardata da tutti, tutti ne tessevano le lodi, ma non c'era nessuno, né re né figlio di re, e neanche un uomo qualsiasi che si presentasse a chiedere la sua mano. Ne ammiravano la divina bellezza, ma la ammiravano come quella di una statua splendidamente scolpita. Le sue sorelle maggiori, la cui modesta bellezza non era diventata oggetto di tante chiacchiere, erano state richieste da prìncipi di sangue reale e si erano felicemente maritate; ma Psiche rimasta in casa, vergine e sola, non faceva altro che piangere nella sua desolata solitudine. Sofferente nel corpo, ferita nell'anima, odiava quella sua bellezza che piaceva tanto a tutti. Perciò il padre infelice di quella fanciulla sventurata, sospettando un qualche odio divino e temendo l'ira degli dei, andò ad interrogare l'antichissimo oracolo del dio di Mileto
e con preghiere e sacrifici chiese a questo potente dio un matrimonio e un marito per la fanciulla che nessuno voleva. Ma Apollo anche se greco e ionico, per riguardo dell'autore di questa storia milesia, diede il suo responso in latino, così:

"Sopra un'alta montagna lascia, o re, la fanciulla ornata per le nozze di abiti funerei. Non aspettarti un genero nato da stirpe mortale, ma un crudele, un feroce, un mostro viperino, che volando con le ali nel cielo dà il tormento a tutti e con ferro e con fuoco distrugge ogni cosa; che lo stesso Giove teme, di cui gli dei hanno il terrore e anche i fiumi infernali e le tenebre dello Stige".

Il re, prima felice, non appena ricevette il responso dell'oracolo, tornò a casa addolorato e triste, e raccontò alla moglie l'ordine infausto ricevuto dal dio.
Per parecchi giorni tutti non fecero altro che affliggersi, piangere, lamentarsi, ma bisognava purtroppo obbedire al lugubre vaticinio.
Furono preparate per la miserabile fanciulla le nozze funebri, e già la luce delle fiaccole si smorza sotto la cenere della nera fuliggine, il suono del flauto nuziale si trasforma nel lamentoso motivo della Lidia
4, e il lieto inno dell'Imeneo in un lugubre ululato, mentre la promessa sposa si asciuga le lacrime col velo.
Tutta la città si unisce al dolore della famiglia colpita da un tremendo destino, mentre vengono sospesi i processi già iniziati nei tribunali, in segno di lutto cittadino.
Si doveva obbedire agli ordini del dio, e la povera Psiche doveva sottomettersi al suo crudele destino.
Finirono dunque, nell'angoscia generale, i preparativi di quelle nozze funebri, e si procedette alle esequie di una persona viva, con il concorso di tutto il popolo. Psiche, in lacrime, veniva accompagnata non al corteo di nozze ma all'accompagnamento funebre.
I genitori afflitti e colpiti da una sciagura così grande esitavano a compiere quell'orrendo misfatto, ma la stessa fanciulla li esortò con queste parole: "Perché volete affliggere la vostra vecchiaia con questi pianti interminabili? Perché con queste urla disperate vi consumate la vita, che è più mia che vostra? Perché sciupate con queste lacrime inutili il vostro volto per me venerando? Perché straziate i miei occhi nei vostri? Perché vi strappate quei bianchi capelli? Perché vi percuotete il petto, quel vostro santo seno? È questo dunque il premio inestimabile per la mia rara bellezza? È troppo tardi ora per comprendere, ora che siete stati colpiti da un colpo mortale inferto da una funesta invidia. Quando popoli e nazioni mi tributavano onori divini, quando tutti in coro mi chiamavano nuova Venere, allora dovevate preoccuparvi, allora dovevate piangere e vestirvi a lutto per me come se fossi già morta. Ora sento, ora vedo che soltanto per quel nome di Venere io sono perduta! Conducetemi su quella rupe che il mio destino mi ha assegnato, e lasciatemi lì. Ormai ho fretta di giungere a quelle nozze felici, ho fretta di vederlo, questo mio nobile marito! Perché indugio, perché mi sottraggo a colui che mi viene incontro, nato per la rovina del mondo intero?".
Detto ciò la vergine tacque e con passo ormai sicuro si mescolò agli altri nella folla che l'accompagnava nella processione funebre. Giunsero alla rupe destinata, in cima a un'alta montagna, sulla cui sommità venne deposta la fanciulla. Tutti poi se ne andarono abbandonandola e lasciando lì anche le fiaccole nuziali, spente dalle loro lacrime, le stesse con cui prima avevano rischiarata la strada; e s'avviarono a capo chino verso le loro case.
I genitori della fanciulla, straziati da una sorte così crudele, si ritirarono nell'ombra della reggia chiusa, condannandosi a una notte senza fine.
Ma Psiche, mentre impaurita e tremante ancora piangeva a dirotto sulla cima della rupe, ecco che sente un dolce soffio di Zefiro alzarsi lievemente e agitarle da ogni parte il lembo della veste che, gonfiato come una vela, la sollevava con suo leggero alito e facendola scivolare a poco a poco lungo il pendio dell'erta rupe, la depone con dolcezza nel grembo di un prato fiorito della valle sottostante.


Il palazzo incantato  

Psiche, soavemente adagiata in quel morbido prato su un letto di tenere erbe, sentì placarsi l'angoscia dell'animo e dolcemente si addormentò. Poi, ristorata da quel placido sonno, si alzò con l'animo rasserenato.
Vide un bosco fitto di alberi alti e grandi, vide una sorgente luccicante di acque cristalline, e nel mezzo del bosco, vicino al luogo dove sorgeva la sorgente, vide una reggia, non certo costruita da uomini, ma opera di dei.
Subito, all'entrata, si capiva con certezza di trovarsi nella dimora splendida e deliziosa di un qualche dio. Infatti gli alti soffitti intagliati con finezza in legno di cedro o in avorio erano sorretti da colonne d'oro, e le pareti erano tutte di argento cesellato, e vi erano raffigurate belve a altri animali che sembravano venire incontro a chi entrava. Certamente un uomo straordinario, anzi forse un semidio se non un dio aveva raffigurato quelle belve d'argento con un'eccezionale finezza artistica. Anche i pavimenti, tutti di mosaico fine e prezioso, rappresentavano pitture di ogni genere. Beati due, tre, cento volte beati quelli a cui è consentito passeggiare su gemme e monìli di quelle specie! Ma anche le altre parti di quella casa, che si estendevano in lungo e in largo, avevano un prezzo inestimabile, e tutti i muri, d'oro massiccio, mandavano riflessi fiammeggianti e rilucevano di luce propria, sì che il palazzo era di per se stesso luminoso anche se mancava il sole. Così pure le camere, le logge e perfino i bagni erano di uno splendore abbagliante. Tutto il resto corrispondeva alla magnificenza di quel palazzo, sì che si poteva credere senza timore di sbagliarsi che quello fosse un edificio costruito apposta per il sommo Giove, perché potesse intrattenervisi con gli uomini. 



Le voci misteriose 

Psiche, attirata dalla delizia di quel luogo, si avvicinò, si fece un po' di coraggio e varcò la soglia del palazzo. Poi, fattasi sempre più ardita per quella stupenda visione, cominciò  ad esaminare una per volta tutte le cose. Vide allora, dall'altra parte del palazzo, magazzini costruiti con arte mirabile, ove era accumulato ogni ben di dio. C'era lì tutto quello che esiste al mondo di prezioso. Ma il miracolo più grande sembrava non tanto quella abbondanza di ogni ricchezza, ma il fatto che quel tesoro che conteneva le ricchezze di tutto il mondo rimanesse lì incustodito, senza catene, senza lucchetti.
Mentre Psiche con grandissima gioia andava esaminando ogni cosa, sentì una voce incorporea che le diceva: "Perché, o signora, ti stupisci di fronte a tante ricchezze? Tutto quello che vedi è tuo. Entra nella tua stanza, riposa nel letto le tue membra stanche e poi quando tu lo vorrai, chiedi l'acqua per il bagno. Noi, che tu senti parlare, noi tue ancelle saremo pronte a servirti e ti apparecchieremo una tavola da regina appena ti sarai riposata".
Psiche riconobbe in quelle voci incorporee la felice assistenza di un dio provvidenziale, e prima col sonno poi col bagno si ristorò dalla stanchezza. Poi vide una tavola semicircolare che sembrava imbandita per la cena: sembrava che fosse pronta per lei, e allora vi si accomodò di buon grado.
E subito le furono portati vini profumati come il nettare e vassoi pieni di vivande prelibate senza che nessuno servisse a casa, ma come se tutto venisse mosso da uno spirito invisibile. Tuttavia lei non poteva vedere nessuno, ma udiva soltanto le parole che le giravano attorno, e aveva voci che la servivano.
Dopo la cena sontuosa entrò qualcuno e cantò non visto, poi un altro toccò la cetra, invisibile anch'esso, poi seguì un coro armonioso di voci concordi, e benché non si vedesse nessuno, era ben chiaro che si trattava di un coro. 
L'amante invisibile  

Terminate tutte quelle delizie, Psiche, venuta la sera, si abbandonò al sonno.
Ed ecco, nel cuore della notte, giunge alle sue orecchie un lieve rumore. Psiche allora, temendo in così grande solitudine al pensiero della sua verginità, comincia ad avere paura, la travolge un senso di orrore e teme l'ignoto più di ogni altro male.
Ma ecco che le si accosta lo sposo sconosciuto, sale sul letto e la fa sua; e prima che sorgesse il giorno se n'era già andato. Alcune voci, già attente e vigilanti nella stanza, curano alla novella sposa la piaga della verginità che le era stata tolta.
Questo si ripeté molte volte. E, come vuole la natura, questa novità ripetuta in una consuetudine assidua finì col procurarle un grande piacere, e il suono della voce sconosciuta riempiva di felicità la sua solitudine.
Intanto i suoi genitori invecchiavano nel pianto e nella angoscia, mentre si diffondeva ovunque la fama di quello che era accaduto. Le sorelle maggiori vennero a sapere ogni cosa, sicché addolorate e vestite a lutto lasciarono le loro case e si recarono dai loro vecchi genitori per vederli e confortarli.
In quella stessa notte lo sposo (che, anche se invisibile, Psiche poteva toccare e sentirne la voce) parlò a Psiche in tale modo: "Psiche dolcissima e cara sposa, un destino crudele ti minaccia di un pericolo mortale. Occorre perciò che tu stia molto attenta, prendendo ogni precauzione. Le tue sorelle sono agitate e pensano che tu sia morta, ma ti stanno cercando e fra non molto arriveranno anche a questa rupe. Tu, quando per caso udirai i loro pianti, non rispondere, anzi non preoccuparti affatto di vederle: altrimenti procurerai a me un dolore grandissimo e per te sarà la completa rovina". Psiche acconsentì, e promise che si sarebbe comportata secondo il volere di lui. Ma, quando con le tenebre si dileguò anche lo sposo, la poverina trascorse il giorno intero fra lacrime e lamenti, ripetendo a se stessa che veramente ora si sentiva finita, perché, rinchiusa in una prigione dorata e priva di ogni rapporto con le persone umane, non poteva neppure dare conforto alle sorelle, anzi non poteva neppure vederle.
Quel giorno non tentò neanche di risollevarsi col bagno, né con cibi, né con qualunque altra cosa, ma piangendo disperatamente si abbandonò al sonno.
Dopo poco sopraggiunse lo sposo, prima del solito, le si pose accanto mentre ancora piangeva, l'abbracciò e le disse: "Sono dunque queste, Psiche mia, le tue promesse? Che cosa devo ormai aspettarmi da te? Anzi, che cosa posso sperare? Eppure sono il tuo sposo! Non smetti di piangere né di giorno né di notte, anzi neppure tra le mie braccia. Fa' come vuoi, dunque, e obbedisci a ciò che ti comanda il tuo desiderio facendo il tuo male. Ti ricorderai del mio serio avvertimento quando sarà troppo tardi e dovrai pentirtene".
Così ella, pregando e supplicando lo sposo e minacciando che sarebbe morta se non fosse stata accontentata, ottenne il consenso che desiderava, di rivedere cioè le sorelle, di confortarle e scambiare con loro parole affettuose.
Lui cedette alle preghiere della sua sposa e per di più le concesse di regalare alle sorelle tutto l'oro e i gioielli che volesse, ma nello stesso tempo l'ammonì cercando anche di spaventarla dicendole di non dar retta alle cattive insinuazioni delle sorelle che le avrebbero suggerito di cercar di sapere chi lui fosse, se non voleva, a causa di una tale sacrilega curiosità, cadere dalla più grande felicità al colmo della sventura, perdendo per sempre la sua intimità con lui.
Psiche lo ringraziò e ormai tutta lieta gli disse: "Che io muoia mille volte, piuttosto che perdere te mio dolcissimo sposo! Perché io ti amo, e chiunque tu sia ti amo disperatamente, ti amo più di me stessa e non ti scambierei nemmeno con lo stesso Cupìdo. Ma ti prego di un'altra cosa: comanda a Zefiro, che si è dimostrato tuo servitore, di condurmi le mie sorelle con lo stesso mezzo con cui io sono giunta fin qui". E alternando i baci con le paroline dolci e stringendosi a lui con tutte le membra, mescolò con le carezze queste parole appena sussurrate: "Mio dolcissimo, mio sposo, dolce anima della tua Psiche!". Lo sposo non tardò a cedere, anche se contro voglia, alla forza e alla dolcezza di quelle parole sussurrate con seduzione, e le promise di fare ciò che desiderava; poi, essendo vicina la luce dell'alba, sparì dalle braccia della sposa.



La visita delle sorelle  

Intanto le sorelle, che si erano fatte indicare il luogo e la rupe dove Psiche era stata abbandonata, vi accorsero in gran fretta e arrivate lì cominciarono a piangere e a percuotersi il petto, tanto che i sassi e le rocce risuonavano dei loro continui urli di dolore. Chiamavano per nome la misera sorella, finché, spaventata per le grida acute e lamentose che echeggiavano lungo il pendio, Psiche uscì dalla casa fuori di sé per l'inquietudine e disse: "Perché vi affannate inutilmente con questi urli strazianti? Sono qui, eccomi, sono io quella che voi piangete. Basta con questi lugubri lamenti, basta con questi pianti che bagnano le vostre guance! Asciugatevi il volto perché ormai potrete abbracciare colei che piangevate come morta!".
Poi chiamò Zefiro e gli comunicò l'ordine del marito.
Immediatamente quello obbedì al comando e con un lieve soffro di vento trasportò giù le sorelle sane e salve. E allora cominciarono a baciarsi ed abbracciarsi facendosi le feste l'una con l'altra, e rispuntarono anche le lacrime che prima si erano calmate, ma questa volta erano lacrime di gioia.
"Entrate, su, entrate pure", disse Psiche, "questa è casa mia, io abito qui ora! Consolate il vostro animo affranto con la vostra Psiche!"
Così dicendo le accompagnò a vedere le ricchezze di quella casa tutta d'oro e fece risuonare alle loro orecchie le numerose voci sempre in attesa dei suoi ordini, e per mezzo di esse le ristorò con un bagno delizioso e con la magnificenza di una mensa che sembrava imbandita per gli dèi, finché, quando si furono ben saziate di quella abbondanza di vivande divine, esse in fondo al cuore cominciarono a covare un senso d'invidia.
Alla fine una delle due, non riuscendo a trattenere la curiosità, cominciò a domandare con insistenza chi fosse il padrone di tante ricchezze sovrumane e chi fosse suo marito e che aspetto avesse.
Psiche stava attenta a non violare in alcun modo il divieto del marito, e conservava gelosamente il segreto del suo cuore, ma per dire qualcosa s'inventò che egli fosse un bellissimo giovane, con le guance appena ombrate dalla prima barba, occupato di solito a cacciare per montagne e pianure; poi, per paura di commettere qualche imprudenza continuando a parlare, e temendo di lasciarsi sfuggire quello che aveva promesso di tenere segreto, colmò le sorelle di re-gali d'oro lavorato e di monili tempestati di gemme e, chiamato lo Zefiro, gliele affidò perché le riportasse via.
Le sorelle di Psiche tramano il loro piano
L'ordine fu subito eseguito, e le buone sorelline, tornando a casa divorate dal fiele dell'invidia, cominciarono a fare chiacchiere a non finire.
Una sbottò dicendo: "Ecco com'è la Fortuna: cieca, crudele, ingiusta! Sarà contenta adesso che è riuscita ad assegnarmi una sorte così diversa, pur essendo figlie degli stessi genitori? E che noi due, che siamo le sorelle maggiori, siamo state date come schiave a mariti forestieri e dobbiamo condurre una vita da esiliate, lontano dalla casa paterna e dalla stessa patria, mentre lei, che è la più piccola, che con la sua nascita ha prosciugato l'utero ormai invecchiato di nostra madre, ha ottenuto tante ricchezze che non sa neppure come godersele, e si è presa come marito uno che sembra un dio!
Ma hai visto, sorella mia, che meraviglia di gioielli in quella casa, che splendore di stoffe, che scintillio di gemme, quanto oro sul quale dovunque si cammina? Se poi suo marito è bello come dice, non c'è al mondo una donna più felice di lei. Anzi può darsi che a lungo andare la consuetudine rafforzi l'affetto e che alla fine quel dio che è suo marito faccia dea anche lei! Ma diamine, è proprio così! Già si atteggia e si comporta come una dea! Già ora mira in alto, già ora, pur essendo donna, spira intorno divinità, lei che ha delle voci come ancelle e comanda perfino ai venti. Io invece, povera disgraziata, ho avuto in sorte un marito più vecchio di mio padre, pelato come una zucca, più bamboccio di un ragazzino, che sa solo tenere la casa chiusa a chiave con sbarre e catene!".
E l'altra: "Io sto anche peggio, che devo sopportare un marito tutto gobbo e rattrappito per l'artrite, e che per questo motivo ben raramente se la sente di far l'amore. Devo strofinargli tutti i momenti le dita storte e indurite come pietre, e rovinare le mie delicate manine con impiastri puzzolenti, bende sudicie e cataplasmi schifosi, non sostenendo la parte di una mogliettina gentile, ma riducendomi a faticare come un'infermiera.
Ma a dir la verità, ti dico le cose come me le sento, mi sembra che tu sopporti questa vita disgraziata con troppa pazienza, direi con la rassegnazione di una schiava; io invece non ce la faccio più a sopportare che una tale fortuna sia capitata a una che non ne è degna. Non ricordi con che superbia, con che arroganza ci ha trattate, e come ha manifestato il suo orgoglio mettendoci sotto gli occhi tutti i suoi averi, e che poca roba ci ha poi buttato lì svogliatamente in dono: eppure le ricchezze non le mancano! E poi, infastidita dalla nostra presenza, ci ha fatto filare via, anzi ci ha fatto soffiare, fischiare dal vento!
Non sono una donna, e non sono neanche viva se non riuscirò a farla colare a picco dall'alto delle sue ricchezze. Se anche tu come me senti questa offesa bruciante, cerchiamo insieme una soluzione efficace.
Tanto per cominciare, queste cose che portiamo via da lì non facciamole vedere ai nostri genitori né ad alcun altro; anzi non facciamo neppure sapere che lei è viva. È già troppo quello che abbiamo visto, perché anche i suoi genitori e il mondo intero sappiano la sua felicità. Infatti non sono veramente felici quelli di cui nessuno conosce la felicità.
Psiche deve imparare una buona volta che noi siamo sorelle maggiori, non schiave. E adesso torniamocene ai nostri maritini e alle nostre case povere ma almeno modeste. Intanto pensiamo bene al da farsi, poi torneremo più decise e castigheremo il suo orgoglio".
Questo perfido piano sembra buono alle due perfide, e cosi, nascosti tutti quei preziosi doni ricevuti, coi capelli scarmigliati e la faccia graffiata, come davvero avrebbero meritato, ricominciano ipocritamente a piangere. In tal modo, dopo aver inasprito il dolore e la disperazione dei loro genitori, ritornano gonfie di rabbia a casa loro, e intanto cercano il modo di architettare un piano ingannevole e scellerato, anzi un vero delitto contro l'innocente sorella.

Nuovi avvertimenti a Psiche
Intanto quell'ignoto marito ammonisce nuovamente Psiche nei suoi colloqui notturni: "Non vedi quale grande pericolo ti minaccia? La Fortuna ti insidia dall'alto, e, se non ti premunisci in tempo, ben presto ti aggredirà direttamente. Quelle due donnacce infami ti stanno tendendo con ogni mezzo un'insidia orribile, il cui punto culminante è questo: ti vogliono convincere a vedere il mio volto e tu sai, perché te l'ho detto altre volte, che se tu mi vedrai, non potrai vedermi mai più. Se dunque fra poco quelle due perfide streghe verranno da te nuovamente, e sono certo che verranno, armate di questi maligni suggerimenti, tu non parlare con loro per nessuna ragione. Ma se poi, a causa della tua semplicità e del tuo buon cuore, non saprai far questo, bada almeno a non ascoltare e non rispondere nulla di ciò che riguarda il tuo sposo.
Tra poco la nostra famiglia sarà accresciuta, perché questo tuo utero ancora di bimba porta un altro bimbo: sarà un dio, se saprai mantenere i nostri segreti, ma sarà un semplice mortale se li tradirai".
Psiche a quell'annuncio brillò dì gioia e cominciò a battere le mani all'idea di un figlio divino e si esaltava di fronte a quella promessa gloriosa e si compiaceva della dignità del nome di madre. Tutta ansiosa contava i giorni e i mesi che si susseguivano uno dopo l'altro, e nella sua inesperienza del nuovo peso della gravidanza, si meravigliava che per una così piccola puntura le si andasse ogni giorno di più ingrossando il ventre.
Ma ormai quelle due furie indiavolate e pestifere che sprizzavano veleno come le vipere, avevano preso il mare con una fretta foriera di tempesta.
Allora di nuovo quello sposo saltuario ammonisce la sua Psiche: "Ecco l'ultimo giorno, l'estremo momento: il sesso ostile e il sangue nemico ha già preso le armi, ha mosso il campo di battaglia, ha ordinato gli schieramenti, ha dato fiato alle trombe; ormai con la spada in pugno le tue infami sorelle mirano alla tua gola.
Quale rovina ci sovrasta, dolcissima Psiche! Abbi pietà di me e di te, mantenendo religiosamente il silenzio salva la tua casa, lo sposo e questa nostra creatura dalla sventura di questo disastro che ci è addosso!
E quelle scellerate che tu non puoi più chiamare sorelle, perché con il loro odio mortale hanno calpestato i vincoli del sangue, tu non devi vederle, non devi ascoltarle, quando come le Sirene faranno risuonare le loro voci funeste dall'alto della rupe".
Psiche gli rispose in mezzo alle lacrime: "Mi sembra che già da un pezzo ti ho dato prova di essere fedele e discreta, ed anche ora più che mai potrai apprezzare la mia fermezza d'animo.
Tu ordina soltanto al nostro Zefiro di rendermi il suo solito servizio, e invece della tua sacrosanta persona, che mi è vietata, concedimi almeno la vista delle mie sorelle.
Per questi tuoi morbidi e lunghi capelli profumati di cinnamomo, per queste tue guance lisce e vellutate, tanto simili alle mie, per questo tuo petto che brucia di non so qual calore, io ti prego! Concedi che un giorno io possa conoscere il tuo aspetto almeno nel volto del bimbo che porto in seno! Ti prego come una supplice di fronte a un dio: concedimi la gioia di poter riabbracciare le mie sorelle e consola in tal modo la tua devota Psiche! Non voglio più ormai conoscere il tuo volto, e non mi turbano più neanche le tenebre della notte: la mia luce sei tu, e sei mio!".
Lo sposo, vinto e conquistato da queste parole e dai teneri abbracci di Psiche, asciugandole le lacrime coi suoi capelli le promise di concederle ogni cosa, poi s'affrettò a sparire, prima che spuntasse il giorno.  

Psiche è ingannata e vinta dalle sorelle
Le due sorelle, unite fra loro da un patto scellerato, senza neppure andare a far visita ai genitori, salirono su una nave e si diressero precipitosamente verso la rupe che ben conoscevano; poi, senza aspettare che il vento le raccogliesse, si lanciarono nel vuoto con folle temerità. Ma Zefiro, ricordandosi del comando ricevuto dal re, anche se controvoglia le accolse nel grembo della brezza che spirava e le depose al suolo.
Quelle subito, senza aspettare, entrarono nella casa e stringendo fra le braccia la loro preda che ipocritamente chiamavano sorella, e nascondendo dietro a un volto lieto il cumulo di perfidia che covavano in cuore, così presero ad adularla: "Oh Psiche, tu non sei più una bimba come prima! Sei già una mamma! Che bel tesoro ci porti in questo tuo pancino! Che festa sarà per tutta la famiglia! Beate noi che avremo la gioia di nutrire questo tuo bimbo d'oro! E se sarà bello come i suoi genitori, com'è naturale, nascerà proprio un nuovo Cupìdo!".
Così, facendo finta di volerle un gran bene, un po' alla volta fanno breccia nel cuore della sorella.
Psiche subito le fece riposare dalla stanchezza del viaggio, le ristorò con un bel bagno vaporoso, e le fece passare in una splendida sala da pranzo dove vennero servite con meravigliose e squisite vivande e deliziosi intingoli. Poi comandò a una cetra di suonare, e si sentì una cetra, ordinò un suono di flauti, e i flauti suonarono, chiese un coro che cantasse, e il coro cantò. Eppure non si vedeva nessuno, mentre dolcissime melodie accarezzavano l'animo di chi ascoltava.
Ma neppure la soave dolcezza di quella musica bastò ad intenerire e a calmare la malvagità di quelle due scellerate; ma, volgendo il discorso in modo che andasse a finire nel trabocchetto che avevano preparato, cominciarono a chiedere a Psiche come fosse suo marito, dove fosse nato e da quale famiglia. E lei, dimenticando nella sua semplicità quello che si era inventata la volta precedente, raccontò un'altra storiella; e disse che suo marito era un ricco mercante di una regione vicina, che era di mezza età, che aveva i capelli già un po' brizzolati.
Poi, senza dilungarsi in queste chiacchiere, le colmò nuovamente di ricchissimi doni e le rimandò sulla solita vettura fatta di vento.
Mentre il lieve soffio dello Zefiro le riportava a casa attraverso l'aria, parlavano tra loro dicendo: "Ma hai sentito, sorella, che razza di mostruose bugie si é inventata quella sciocca? Prima suo marito era un giovinetto col volto appena ombrato da una lieve lanugine, adesso è di mezza età e già un po' brizzolato. E che uomo è questo, che diventa vecchio in così poco tempo?
I casi sono due: o quella è una disgraziata che inventa una storia sull'altra, o non ha mai visto la faccia di suo marito. In ogni modo bisogna toglierla assolutamente da tutte quelle ricchezze. Se non conosce la faccia di suo marito, allora vuol dire che ha sposato un dio, e sarà un dio anche il bambino che porta. Se le cose stanno così (dio non voglia!) io corro subito a impiccarmi a una corda con un buon nodo.
Ma torniamo dai nostri genitori, e dopo tante chiacchiere cominciamo a passare ai fatti, combinando un bell'intrigo".
Così, tutte arrabbiate, salutarono sgarbatamente i genitori e, dopo una notte insonne e tormentata, il mattino dopo si precipitarono nuovamente alla rupe come due forsennate, e di lì col solito aiuto del vento scesero giù rapidamente.
Poi, spremendosi le palpebre, riuscirono a far scendere qualche lacrima e infine cominciarono a raggirare Psiche con queste parole: "Beata te che non capisci niente, e che te ne stai lì tranquilla senza renderti conto del pericolo che corri! Noi invece che ci preoccupiamo tanto per te non facciamo altro che tormentarci per la tua disgrazia. Noi sappiamo con certezza, e non possiamo più nascondertelo perché partecipiamo troppo intensamente al tuo dolore e alla tua sventura, che, senza che tu lo sappia, una bestia spaventosa giace con te tutte le notti: è un serpente mostruoso che si avvolge in cento spire, che ha un collo sanguinante di veleno mortale e un'enorme gola spalancata.
Ricordati l'oracolo: aveva predetto che eri destinata ad un mostro.
E poi molti pastori e molti cacciatori ed anche moltissima gente che abita da queste parti l'ha visto quando ritorna la sera dal pascolo e nuota nelle acque del fiume vicino.
Tutti dicono che non durerà ancora molto a lungo a farti ingrassare dandoti da mangiare prelibate vivande, ma quando il tuo utero sarà arrivato al termine della gravidanza ti divorerà insieme col frutto prelibato che ti avrà riempito.
Adesso decidi tu: o dai retta alle tue sorelle angosciate per la tua vita che hanno tanto a cuore, e, sfuggendo la morte, vieni a vivere con noi senza pericoli, oppure sarai seppellita nelle viscere di questa bestia crudelissima.
Se poi sei così contenta di stare in questo deserto pieno di voci a far l'amore clandestinamente con questa bestia fetida e pericolosa e ti piace questo rapporto intimo con un drago velenoso, fa' pure: noi abbiamo assolto al nostro dovere di sorelle affettuose".
Allora la povera Psiche, semplice e tenera nel suo animo, fu presa da un indicibile spavento al sentire parole così terrificanti; fuori di sé dimenticò tutti gli avvertimenti del suo sposo e le promesse che gli aveva fatto e precipitò in un abisso di angoscia, e tremante, pallida e senza vita cominciò a balbettare con un fil di voce parole smozzicate, in questo modo: "Voi, carissime sorelle, certamente vi comportate come è giusto, spinte da quel dovere che vi viene imposto dal vostro santo affetto, ma non mi sembra che dicano bugie anche quelli che vi hanno raccontato queste cose.
Infatti io non ho mai visto in faccia mio marito, e non so neppure di che paese sia; ma se penso ai discorsi che mi fa nei suoi colloqui notturni devo dire che sono sottomessa a un marito di condizione ignota, che fugge la luce. Perciò devo ammettere che voi diciate la verità affermando che si tratto di una belva. Inoltre cerca di spaventarmi in ogni modo affinché io non voglia vederlo, e, minacciandomi, mi predice grandi sventure se io insisterò a manifestare il desiderio di vedere il suo volto.
Se voi potete in qualsiasi modo aiutare questa vostra infelice sorella, fatelo subito, per carità, altrimenti la vostra trascuratezza annullerebbe il vantaggio della precedente sollecitudine".
Allora quelle scellerate videro aperto il varco nell'animo di Psiche e, messe da patte le insidie di ogni trama nascosta e impugnando apertamente la spada dell'inganno, irretiscono l'animo dell'ingenua fanciulla.
E l'altra soggiunse: "Poiché il vincolo della parentela ci spinge a tenere sempre gli occhi aperti per la tua incolumità sul minimo pericolo che si possa presentare, vogliamo suggerirti un mezzo che potrà condurti alla salvezza. Ci abbiamo lungamente pensato e meditato.
Nascondi sotto il letto, dalla parte dove tu sei solita dormire, un rasoio affilato, che potrai rendere anche più tagliente passandolo sul palmo della mano. Poi metti una lucerna piena d'olio, che faccia una luce ben chiara, dentro un recipiente ben chiuso, in modo che non si possa vedere. Dopo tutti questi preparativi fatti nel più grande segreto, aspetta il momento in cui quello, muovendosi sulle sue spire, si sarà trascinato nel letto come è solito fare e, vinto dal primo sonno, dimostrerà russando di essersi profondamente addormentato: allora tu scivola giù dal letto e camminando pian piano e con cautela, a piedi nudi, estrai la lucerna dalle tenebre della cieca prigione in cui è stata rinchiusa, poi, con l'aiuto della luce, cogli il momento opportuno per la tua coraggiosa impresa e con la destra, sollevando arditamente il rasoio, colpisci con tutte le tue forze il malefico serpente fra capo e collo.
Sta' certa che ti aiuteremo. Noi naturalmente sentiamo tutta la trepidazione dell'attesa, ma quando avrai ucciso il serpente non dovrai temere più di nulla; porteremo via tutta questa roba insieme a te e penseremo poi a unire in liete nozze te, che sei una creatura umana, a uno sposo umano".
Con queste parole di fuoco incendiarono l'animo già ardente della sorella, e poi se ne andarono subito, spaventate anch'esse dall'imminenza di quel delitto che avevano suggerito. Come al solito furono sollevate dalle ali del vento sopra la rupe e, salite sulla nave, se ne andarono in gran fuga.
Psiche, rimasta sola, anzi non sola ma agitata dalle Furie nemiche, ondeggia come le onde del mare in una gran tempesta di pensieri lugubri. E sebbene ormai decisa risolutamente a portare a termine il piano predisposto, nel momento di passare all'esecuzione di questa scellerata impresa, rimane ancora esitante nell'incertezza, spinta in varie direzioni da pensieri diversi.
Ora si affretta ora indugia, ora si sente piena di coraggio ora si lascia prendere dallo sgomento, ora dubita, ora si adira: insomma nello stesso corpo odia il mostro e ama lo sposo.
Tuttavia, quando ormai la sera era inoltrata, in gran fretta compie la preparazione dell'infame delitto. Giunge la notte, e arriva anche lo sposo che, dopo le prime coniugali battaglie amorose, cade in un sonno profondo. 

Psiche vede Amore
Allora Psiche, debole per natura nel corpo e nell'animo, ma resa coraggiosa dal suo crudele destino, raccoglie tutte le sue forze e, tratta fuori la lucerna ed estratto il rasoio, si ritrova un coraggio da uomo. Ma appena al chiarore della lampada apparve lo sposo segreto, ella vide la belva più mite e la più dolce di tutte le fiere: Amore, il bellissimo dio, bellissimo anche nel sonno, alla cui vista si rallegrò anche la lampada e balenò di luce splendente la lama dell'arma sacrilega.
Psiche, atterrita e fuori di sé, coperta da un pallore mortale, tremante, cadde a terra sulle ginocchia e voleva nascondere la lama piantandosela nel cuore. E l'avrebbe fatto certamente, se la lama stessa, impaurita da quel delitto atroce, non le fosse sfuggita dalla mano audace.
E oramai priva di forze, spossata come era, ecco che guardando la bellezza di quel volto divino riprende sempre più animo. Vede il biondo capo e i fluenti capelli umidi d'ambrosia, vede sul collo bianco come il latte e sulle gote rosate le morbide ciocche di capelli sparse alcune sul petto, altre sulle spalle: d'innanzi a questa bellezza sfolgorante anche la stessa fiamma della lucerna sembrava vacillare.
Sulle spalle del dio alato splendevano piume morbide di rugiada sfolgoranti di sfavillante fulgore, e, sebbene le ali stessero ferme, le piumette che si trovavano all'estremità tremolavano sussultando scherzosamente e senza posa. Il resto del corpo era liscio e splendente e tale che la stessa Venere non poteva pentirsi di averlo generato. Ai piedi del letto giacevano le armi dell'infallibile Iddio: l'arco, la faretra, le frecce.
Psiche con curiosità insaziabile si sofferma a guardarle e le tocca e ammira le armi del suo sposo, poi estrae una freccia dalla faretra e toccando con il pollice la punta acuta, facendo un movimento un po' troppo brusco con la mano ancora tremante si punge piuttosto profondamente il dito, cosicché a fior di pelle escono alcune goccioline di rosso sangue, come rugiada.
Così l'ignara Psiche per colpa sua fu presa dall'amore di Amore.
Allora, sentendo crescere irresistibilmente dentro di sé la voluttà per il dio della voluttà, china su di lui con le labbra dischiuse prese a baciarlo e ribaciarlo con baci appassionati, senza freno, temendo solo che si svegliasse.

Scomparsa di Amore
Ma, mentre delirava ferita dall'eccitazione di quell'indicibile piacere, la lucerna, o per malvagia perfidia o per odiosa gelosia o perché desiderosa anch'essa di toccare e quasi di baciare un corpo così bello, fece schizzare fuori dalla punta della sua fiamma una goccia di olio bollente che andò a cadere sulla spalla destra del dio.
Oh audace e temeraria lucerna, vile strumento d'amore, tu hai osato bruciare il dio di ogni fuoco, tu che sei stata certamente inventata da un innamorato che voleva godere più a lungo, anche di notte, le dolcezze tanto desiderate!
Così il dio, sentendosi scottare, balzò su dal letto e vide l'oltraggio e il tradimento di ogni promessa di fedeltà. Senza dire una parola volò via, sfuggendo ai baci e alle mani dell'infelicissima sposa.
Ma Psiche, mentre egli si alzava nel volo, si aggrappò con tutte e due le mani al piede destro del dio, come una miserabile appendice di quel sublime innalzamento, e continuò così a seguirlo ancora per le regioni nuvolose del cielo, finché esausta si abbatté sul suolo.
II divino amante non la abbandonò così buttata per terra, ma volò su un cipresso lì vicino e dall'alto di quella vetta, profondamente commosso, le parlò in questo modo: "Proprio io, mia ingenua Psiche, proprio io, disobbedendo ai comandi di mia madre Venere che ti voleva innamorata di un uomo miserabile e abbietto, e condannata a sposarlo, sono volato da te e sono divenuto il tuo sposo.
Ho agito con troppa leggerezza, lo so; io, il famosissimo arciere, mi sono ferito con le mie stesse armi e ti ho fatta mia sposa perché tu poi mi credessi una bestia e volessi con un'arma tagliarmi la testa, quella testa che porta gli occhi innamorati di te! Eppure in ogni momento io ti mettevo in guardia contro un tale pericolo e più di una volta ti ho amorosamente avvertito!
Ma quelle tue egregie consigliere avranno il castigo che si meritano per i loro malvagi insegnamenti; tu invece sarai punita soltanto con la mia fuga".
E, dopo aver parlato in questo modo, si levò rapidamente in alto sulle ali.
Psiche, prostrata a terra, cercava di seguire con gli occhi il volo dello sposo fin dove poteva, e intanto sfogava l'angoscia del suo animo con lamenti disperati. Poi, quando il movimento delle ali portò via Cupìdo nella profondità dello spazio e lo rese invisibile, lei si gettò giù a capofitto dalla sponda del fiume vicino. Ma il fiume gentile, certamente in omaggio a quel dio che sa dar fuoco perfino alle acque, e temendo anche per sé, subito l’avvolse tra le sue onde senza farle alcun male e la depose sopra la riva erbosa e cosparsa di fiori.
Per caso si trovava lì, seduto sul ciglio del fiume, il rustico dio Pan che teneva tra le sue braccia la sua dea montanina Eco e le insegnava a ripetere cantando le ariette più svariate. Lungo la riva le caprette vagabonde, pascolando qua e là, brucavano la chioma erbosa del fiume. II dio caprigno, chiamando dolcemente la povera Psiche affranta e sfinita, non ignaro del resto di quello che era successo, cercava dl consolarla con queste parole carezzevoli:
"Graziosa fanciulla, io sono è vero rustico e pecoraio, ma la mia vecchiaia mi ha insegnato molte cose. Se non mi sbaglio, e questa è per quelli che lo capiscono la vera arte dell’Indovino, io intuisco dal tuo passo incerto e spesso vacillante, dal tuo eccessivo pallore, dai continui sospiri e infine dai tuoi occhi così addolorati, che tu sei malata di un grande amore. Dammi dunque retta, e non provare nuovamente a buttarti da qualche parte o ad ammazzarti in qualsiasi altro modo. Smettila di piangere e lascia da parte ogni tristezza, e invece prega Cupido, il più potente degli dei, e cerca di propiziartelo con teneri omaggi, perché è un giovinetto delicato e sensibile all’amore". 

La punizione delle sorelle
Quando il dio dei pastori ebbe finito di parlare, Psiche, senza rispondergli neanche con una parola, ma salutandolo devotamente come una divinità, seguitò la sua strada.
Cammina, cammina, per una strada lunga, faticosa e sconosciuta, verso sera giunse a una città dove regnava il marito di una delle sue sorelle.
Quando Psiche venne a saperlo, chiese di essere annunziata. Fu subito fatta passare, e dopo essersi scambiate baci e abbracci, Psiche giustificò il motivo della sua venuta dicendo:
“Ti ricordi del buon consiglio che mi avete dato, cioè di uccidere con un rasoio affilato la belva che giaceva con me facendosi credere mio marito, prima che mi inghiottisse con la sua gola vorace? Ebbene. appena con la complicità della lucerna, come voi mi avevate suggerito, io vidi il suo volto, mi si presentò davanti agli occhi uno spettacolo stupendo e veramente divino: era lo stesso figlio della dea Venere, Cupido in persona, proprio lui, ti dico, immerso in un sonno dolcissimo! E mentre io stavo lì colpita da quello spettacolo sublime e turbata da un piacere immenso tale che mi pareva di non reggerne il godimento, la mia cattiva stella volle che dalla lucema schizzasse dell'olio bollente sulla sua spalla.
Subito si svegliò per il dolore e vedendomi armata di ferro e di fuoco esclamò: ‘Vattene, dopo che hai tentato di compiere questo abominevole misfatto, vattene subito via dal mio letto, e portati via tutte le tue cose. La mia legittima sposa sarà  tua sorella’ e ha fatto espressamente il tuo nome.
Poi ha ordinato a Zefiro di portarmi via col suo soffio dalla sua casa”.
Psiche non aveva ancora finito di parlare che la sorella, agitata dal pungolo di una frenesia lussuriosa e di una malvagia invidia, inventò scaltramente una solenne bugia per il marito dicendogli che le erano morti i genitori e si imbarcò subito su una nave dirigendosi alla rupe. Tirava un vento diverso dal solito, ma lei tutta protesa nella sua cieca speranza, e gridando “Eccomi, Cupido, eccomi! lo sono la sposa degna di te! E tu Zefiro accogli la tua signora!”, con un grandissimo salto si buttò giù.
Dove voleva arrivare non ci arrivò neppure morta. Infatti il suo corpo rimbalzò qua e là sulle rocce acuminate e si sfracellò, come meritava, e le sue membra dilaniate e sparse furono facile pasto di uccelli e bestie feroci.
E non tardò anche la seconda vendetta.
Infatti Psiche, riprendendo il suo cammino senza meta, giunse a un'altra città dove abitava l’altra sorella. Anche questa, non diversamente dalla prima, ingannata da un falso amore fratemo e rivale della sorella in quelle scellerate nozze, si affrettò verso la rupe e precipitò nello stesso modo trovando la morte. 

Venere viene a conoscenza dell'accaduto
Intanto, mentre Psiche, tutta presa di amore ansioso per Cupido, andava in giro per tutto il mondo, Cupido, ancora dolorante per la bruciatura della lucema, giaceva lamentandosi nel letto della madre.
Allora il gabbiano, quell'uccello bianchissimo che sfiora a nuoto la superficie dell'acqua, si immerse rapidamente nelle profondità dell’Oceano.
Là, avvicinatosi a Venere che si bagnava e nuotava, la informò che suo figlio si era bruciato e stava lamentandosi per il dolore della piaga, ed era in pericolo di vita; e che questa storia era sulla bocca di tutti e che in giro si diceva ogni sorta di malignità e di mormorazioni sulla famiglia di Venere: “Si dice che ve ne siete andati, lui tra le montagne con una sgualdrina, tu nel mare a nuotare, e intanto nel mondo non c’è più alcun piacere, né grazia né garbo, ma tutto è sciatteria, rozzezza, grossolanità. Non più matrimoni regolari, non amicizie, non amore filiale, ma un dilagare dell'immoralità e un molesto fastidio di rapporti squallidi”.
Quel chiacchierone di un uccello andava ciarlando in questo modo spettegolando nelle orecchie di Venere e facendo a pezzi la reputazione del suo figliolo.
Allora Venere piena di collera esclamò a un tratto:
“Dunque quel tesoro di figlioletto ha già un'amica? Tira subito fuori, visto che solo tu mi sei fedele, il nome di quella che ha sedotto quel ragazzino ingenuo e innocente, sia essa una dalle Ninfe o delle Ore, oppure anche una del coro delle Muse o del corteo delle mie Grazie!”
Quell'uccello chiacchierone continuò a parlare:
“Veramente non lo so, mia signora, ma credo, se mi ricordo bene, che sia perdutamente innamorato di una ragazza che si chiama Psiche”.
Allora Venere si infuriò e cominciò a gridare:
“Come? Se è vero che ama Psiche, la mia rivale in bellezza, quella che vorrebbe emulare la mia fama, allora quel mio rampollo mi ha preso per una ruffiana e pensa che gli ho fatto vedere quella ragazza perché se la facesse con lei!” 

Venere rimprovera Cupìdo
Sbraitando in questo modo uscì rapidamente dall'acqua del mare e andò difilato al suo letto dorato. Là  trovò, come le era stato detto, suo figlio ammalato.
Prima ancora di entrare cominciò a gridare ancora fuori della porta:
“Bel modo di fare! Ti sei comportato proprio come dovevi per tenere alto il nome della famiglia e il tuo! Hai calpestato gli ordini di tua madre, anzi della tua regina, visto che ti avevo comandato di tormentare la mia rivale con un amore ignobile, e per di più, ragazzino come sei, te la sei presa come amante e pretendi che io sopporti come nuora una nemica! Fannullone! Seduttore! Mostro! Credi di essere capace solo tu a fare i figli? E che io sia così vecchia da non poteme più avere? Ti farò vedere io! Metterò al mondo un figlio molto migliore di te, anzi, per mortificarti ancora di più adotterò uno dei miei schiavetti e gli regalerò le tue ali, e la fiaccola e l’arco e le frecce, e tutti questi arnesi che ti avevo dato perché ne facessi un uso diverso. Intanto in tutte queste cose che hai non c’è niente che provenga dai beni di tuo padre5”.
Ma tu sei stato viziato fin da piccolo e bisognava tagliarti le unghie finché si era in tempo6. Hai avuto anche l’ardire di prendertela con i tuoi vecchi e persino con me, che sono tua madre, proprio io! Tu mi derubi ogni giorno, assassino! e mi hai perfino picchiato, e mi disprezzi come se fossi una povera vedova, senza un briciolo dì rispetto neanche per il tuo padrigno, che è sommo e fortissimo guerriero.
O non è così? E sei arrivato al punto di procurare anche a lui qualche donnaccia per far dispetto a me!
Ma ci penso io, adesso, a farti pentire di questi tuoi scherzi, e a far diventare acide e amare queste tue nozze!
Ma intanto, così presa in giro, che faccio? Dove vado? Cosa posso inventarmi per ridurre all’obbedienza questa tarantola? Dovrei chiedere aiuto alla Castità, mia nemica, che io ho sempre offeso proprio a causa della condotta dissoluta di questo mio figlio? Mi fa orrore il solo pensiero di dover ricorrere a quella donna squallida e rozza.
D’altra parte non posso disprezzare la soddisfazione della vendetta in qualsiasi modo si compia.
Devo servirmi di lei e di nessun’altra, perché  castighi questo sciocco, gli spezzi la faretra, gli spunti le frecce, gli distrugga l’arco, gli spenga la fiaccola, e finalmente domi anche lui, con i rimedi più energici
Allora soltanto potrò ritenere che sia stata vendicata l’offesa che mi è stata fatta, quando gli avrà  rasato quelle chiome luminose che io stessa con le mie mani gli ho tante volte riordinato, e quando gli avrà tagliato le ali, che io stessa ho cosparso di nettare nel mio seno”.
Detto questo corse fuori furibonda, anzi infuriata di un furore degno di Venere.
In quel momento le vennero incontro Cerere e Giunone e, vedutala col volto congestionato, le chiesero perché aggrottasse in quel modo le ciglia oscurando la bellezza fulgida del suo sguardo.
Venere rispose:
“Arrivate proprio in tempo per farmi sfogare la rabbia che ho in corpo! Ma vi prego: cercatemi con ogni mezzo questa Psiche che è fuggita via, che si è volatilizzata! Voi certamente sapete la disgraziatissima storia che si è abbattuta sulla mia famiglia e le belle imprese di colui che non si può più dire che sia mio figlio!”.
Allora le dee, ben sapendo quello che era accaduto, tentarono di placare l’ira di Venere prendendola con le buone:
“Ma che cosa ha fatto di male tuo figlio, perché tu debba ostacolarne così tenacemente i piaceri e pensare solo a mandare in rovina la donna che lui ama? Che delitto è mai questo, di far la corte a una graziosa ragazza? Ti sei dimenticata quanti anni ha? Eppure lo sai che è maschio e che è giovane! Oppure, visto che non dimostra la sua età, credi sempre che sia un ragazzino? Tu poi, che sei madre e donna ormai assennata, stai lì a curiosare le scappatelle del tuo ragazzo, e non fai altro che condannarne le passioni e gli amori! Non è forse tuo figlio? E non ti accorgi di biasimare in lui, che è anche tanto bello, le tue stesse abitudini, i tuoi stessi piaceri? Qual dio, quale uomo potrà trovare giusto che tu diffonda ovunque nel mondo la passione dell’amore, e che poi a casa tua tu impedisca con asprezza ogni amore, e chiuda la pubblica scuola dei vizi delle donne?”.
Così le due dee, per timore degli strali di Cupìdo, cercavano dì ingraziarselo benché non fosse presente, patrocinandone la causa.
Ma Venere, indignata perché le offese di cui si lamentava venivano prese poco sul serio, voltò ad esse le spalle e a passi concitati prese la via del mare 

Inutili invocazioni di Psiche a Cerere e Giunone
Intanto Psiche continuava ad andare alla ricerca dello sposo, vagando giorno e notte da un luogo all’altro, con l’animo affranto, e con la speranza sempre più ardente di riuscire se non a intenerirlo con le carezze che sa fare una moglie, almeno ad ottenerne il perdono supplicandolo come una schiava.
Vide un tempio sulla cima di una montagna scoscesa e si disse: “Chissà che lassù non abiti il mio signore?”.
Subito diresse i suoi passi verso quel luogo, frettolosamente, perché sebbene fosse sfinita per le interminabili fatiche, era tuttavia animata dal desiderio e dalla speranza.
Così, superati rapidamente i colli più alti, si avvicinò al tempio. Qui vide delle spighe di grano, parte legate in covoni, parte intrecciate in ghirlande; e inoltre vide delle spighe d’orzo. Vi erano anche falci e tutti gli attrezzi che servono alla mietitura; ma sparsi dovunque alla rinfusa, come avviene nelle ore più  calde quando vengono gettati qua e là dai mietitori.
Psiche con grande diligenza li mise in ordine, ciascuno al suo posto, perché pensava di non dover trascurare i templi e le cerimonie religiose di nessuna divinità, ma anzi di dover conciliare a sé la benevola misericordia di tutte.
Mentre con ogni cura Psiche era intenta a questo lavoro, fu sorpresa dalla divina Cerere, che le si fece incontro esclamando da lontano:
“Oh povera Psiche! Venere, furibonda, ti sta cercando in ogni angolo della terra per darti la morte, e reclama vendetta con tutte le forze del suo potere divino; e tu intanto ti prendi cura delle mie cose, e pensi a tutto tranne che alla tua salvezza?”.
Allora Psiche si gettò ai piedi della dea e glieli bagnò con le lacrime, e spazzando la terra con i capelli le chiedeva aiuto supplicandola in mille modi:
“Per questa tua destra donatrice di messi, per le gioconde cerimonie dei raccolti, per i misteri che avvolgono le tue ceste, per il carro tirato dai tuoi serpenti alati, per le zolle della Sicilia, per il carro che ha rapito tua figlia, per la terra avara che l’ha nascosta, per la discesa di Proserpina verso il luogo tenebroso delle sue nozze, e per il ritrovamento che l’ha riportata alla luce, per tutti gli altri arcani segreti dell’attica Eleusi, vieni in aiuto dell’infelice Psiche, che ti invoca come supplice. Concedimi di rimanere nascosta per qualche giorno tra questi covoni, fino a che non si sia un po’ mitigato il furore di quella tremenda dea o almeno fino a quando si ristorino un poco le mie forze, dopo tanti travagli, con un po’ di quiete!”.
Cerere rispose: “Le tue preghiere e le tue lacrime mi commuovono, e desidero aiutarti; ma non vorrei incorrere nel risentimento della mia nipote7, con la quale inoltre sono da tempo molto amica. Oltre tutto è un’ottima donna.
Dunque vattene subito da questo tempio, e ringrazia il cielo se non ti trattengo qui come prigioniera”.
Psiche si vide respinta contro ogni sua speranza, e la sua angoscia raddoppiò. Tornò allora indietro e scese nella valle e lì vide, in un bosco non troppo folto, un altro tempio costruito a regola d’arte. Non volendo trascurare nessun mezzo, anche se con poca speranza di riuscita, che potesse aprirle la strada a una migliore fortuna, e desiderosa di raccomandarsi a qualsiasi divinità  per chiedere aiuto, si avvicinò alle sacre porte del tempio.
Vide allora preziosi doni votivi e drappi istoriati a caratteri d’oro che pendevano dai rami degli alberi e dai battenti delle pone, e che testimoniavano le grazie ottenute col nome della dea a cui erano dedicati.
Allora si inginocchiò e abbracciò l’altare, ancora tiepido, e asciugandosi le lacrime pregò così:
“O sorella e sposa del gran Giove, sia che tu risieda nell’antichissimo tempio di quella Samo che udì per prima il tuo vagito e che sola può gloriarsi di averti dato i natali e di averti allevata, sia che tu frequenti le sedi beate della gran Cartagine, che ti adora come una vergine portata in cielo da un carro tirato da leoni; sia che tu custodisca gli spalti gloriosi degli Argivi lungo le rive del fiume Inaco, che già ti esalta qual moglie di Giove Tonante e regina delle altre dee; te, che tutto l’Oriente venera sotto il nome di Zigia e l’Occidente invoca chiamandoti Lucina; sii tu per me davvero Giunone Salvatrice, nella mia estrema rovina, e liberami dall’angoscia di questo estremo pericolo. Infatti io so bene che tu sei colei che corre in soccorso delle donne che devono partorire quando sono in pericolo!”.
Sentendosi supplicare in questo modo Giunone si presentò  subito a Psiche, in tutta l’augusta dignità della sua divinità, e così le disse:
“Come sarei lieta di esaudire le tue preghiere! Ma non posso senza vergogna andare contro il volere di Venere, mia nuora8, che ho sempre rispettato come una figlia. E d’altra parte sarebbe contro di me anche la legge, che vieta di accogliere gli schiavi fuggitivi senza il consenso dei loro padroni”.
Atterrita da questa nuova, tremenda disfatta della Fortuna, Psiche comprese che non avrebbe più potuto raggiungere il suo sposo alato, e priva ormai di ogni speranza si abbandonò  a queste amare riflessioni:
“Quali altri mezzi posso io tentare o quali rimedi posso escogitare per porre fine alle mie disgrazie, se neppure le dee, pur volendo darmi aiuto, hanno potuto soccorrermi? Dove dunque rivolgerò i miei passi, ora che sono nuovamente irretita in lacci inestricabili? E sotto quale tetto potrò rifugiarmi o in quali tenebre nascondermi per sfuggire agli sguardi inesorabili della grande Venere?
Ma non è forse meglio che tu, o Psiche, assuma finalmente un animo virile e, rinunciando risolutamente a tutte le speranze vane e meschine, ti rechi di tua spontanea volontà presso la tua signora e, sottomettendoti a lei con umiltà, anche se in ritardo, cerchi di mitigare il suo tremendo furore? Che ne sai, che magari proprio in casa di sua madre tu possa trovare colui che vai cercando con tanta ansia?”.
Così, disposta a subire anche questa umiliazione dall’esito incerto, o piuttosto ad andare incontro ad una sicura rovina, cominciò a riflettere fra sé il modo con cui dare inizio alle sue invocazioni.  
Venere alla ricerca di Psiche
Ma Venere intanto, rinunciando ormai a cercare Psiche sulla terra, decide di rivolgersi al cielo. Dà ordine che le sia preparato lo splendido carro d’oro, opera mirabile d’intaglio e di lima, che Vulcano con sottile arte d’orefice aveva lavorato per lei prima delle nozze, e  glielo aveva offerto come dono nuziale.
Tra le tante colombe che stavano intorno alla camera della loro padrona, ve n’erano quattro bianchissime che avanzavano verso il carro, e con gaia andatura e piegando il collo variopinto si vanno a collocare sotto il timone tempestato di gemme. Poi, salita la padrona, lietamente prendono il volo.
Uno stormo di passeri e di altri uccelli canterini faceva mille giri volteggiando attorno al carro e seguendolo da vicino con allegri cinguettii per festeggiare l’avvento della dea. Ed ecco che le nubi si ritirano, il cielo si apre davanti alla sua figlia e la dea viene accolta gioiosamente nelle più alte regioni dell’atmosfera, mentre la canora famiglia di Venere non ha alcun timore di incontrare aquile o sparvieri rapaci.
Intanto la dea si dirige rapidamente verso il regale palazzo di Giove e con atteggiamento altezzoso chiede di potersi servire della voce stentorea del dio Mercurio. Giove fa cenno di sì col suo nero sopracciglio.
Allora Venere giubilante scende dal cielo con Mercurio parlandogli concitatamente in questi termini:
“Mio fratello Arcade, tu sai che tua sorella Venere non ha mai fatto niente senza l’aiuto di Mercurio, e tu sai di certo che io da molto tempo cerco senza risultato di ritrovare una mia schiava che mi si nasconde. Dunque ormai non resta altro da fare che annunziare pubblicamente attraverso un bando il premio che darò a chi la trova.
Dunque datti da fare ed esegui i miei ordini diffondendo chiaramente i segni che possano permettere di riconoscerla, perché  può darsi che qualcuno si sia reso colpevole di averla nascosta, e in tal modo non potrà difendersi col pretesto dell’ignoranza!”.
Così disse Venere e gli diede un manifesto dove era segnato il nome di Psiche e tutte le altre indicazioni. Fatto questo se ne tornò a casa.
Mercurio obbedì. E andando di qua e di là  in giro per tutto il mondo adempiva con grande zelo l’ufficio di banditore, gridando:
“Se qualcuno potrà impedire la fuga o svelare il nascondiglio di una figlia di re, serva di Venere, che si è nascosta, venga dal banditore Mercurio, dietro alle colonne della piazzetta Murcia9. Riceverà in premio da Venere in persona sette dolci baci, e poi uno molto più dolce, colla lingua”.
II desiderio di un tale premio così annunciato da Mercurio aveva suscitato una gara incredibile in mezzo alla gente. Ma questo, soprattutto, servì perché Psiche rompesse ogni indugio. Stava già avvicinandosi al portone del palazzo della sua signora, quando le si fece innanzi una delle ancelle di Venere, di nome Abitudine, che cominciò a gridare con tutto il fiato che aveva in gola:
“Finalmente, serva malvagia, hai cominciato a capire che hai una padrona? Oppure, in aggiunta a tutte le altre tue sfrontatezze, fai finta di non sapere quante ne abbiamo dovute passare per riprenderti? Ma ben ti sta: ora sei cascata al momento giusto tra le mie mani: è come se fossi cascata nelle grinfie dell’Orco, e pagherai subito il fio della tua troppo lunga scappata!”. 

Psiche davanti a Venere
La prese per i capelli e la trascinava, mentre lei non opponeva la minima resistenza.
Appena Venere se la vide davanti trascinata in quel modo scosse il capo, si grattò l’orecchio destro e scoppiò  a ridere rabbiosamente. Poi disse:
“Ti sei degnata finalmente dì venire a salutare tua suocera? O sei venuta qui a cercare tuo marito, che è in pericolo di vita per la piaga che gli hai procurato? Ma sta tranquilla che io ti farò l’accoglienza che si merita una buona nuora!”.
Poi soggiunse:
“Dove sono le mie ancelle Angoscia e Tristezza?”. E così, dopo averle chiamate, gliela consegnò perché la torturassero.
Quelle obbedirono subito al comando della loro padrona, e dopo averla fustigata con le sferze e sottoposta a ogni genere di sevizie la riportarono davanti alla padrona.
Allora Venere ricominciò a sghignazzare ed esclamò:
“Ecco, ora crederà di muovermi a compassione e di intenerirmi con quel suo ventre gonfio, per cui io diventerò nonna, certo di una stirpe assai gloriosa! Sarò proprio felice di sentirmi chiamare nonna mentre sono ancora nel fiore della giovinezza, soprattutto quando si saprà che il nipote di Venere è figlio di una sgualdrina!
Ma che sciocchezze vado dicendo chiamandolo figlio? Le nozze fra persone di diverso rango e fatte per di più tra i campi e senza testimoni e senza il consenso del padre non possono certo essere valide: quindi tuo figlio sarà un bastardo, ammesso che io ti consenta di metterlo al mondo!”. 

Venere infligge la prima prova a Psiche. Aiuto delle formiche.
Così dicendo si avventa contro Psiche, le straccia la veste, le strappa i capelli e la riempie di botte scuotendola per la testa; poi si fa portare grano, orzo, miglio e semi di papavero e ceci e lenticchie e fave, li mescola insieme facendone un gran mucchio e poi volgendosi a Psiche le dice:
“Tu mi sembri una schiava così brutta che puoi acquistare la benevolenza dei tuoi amanti solo con dei piccoli servizi che richiedono un’estrema pazienza. Ebbene, anch’io voglio mettere a prova la tua abilità. Dovrai scegliere da questo confuso ammasso di grani quelli appartenenti a ciascuna specie: separali e riordinali dividendoli a mucchietti uno per uno, e fammi trovare il lavoro terminato prima di sera”.
Così la lasciò davanti a tutto quel mucchio di semi e se ne andò a un pranzo di nozze.
Psiche però, dinanzi a quell’ammasso inestricabile di semi non ebbe neppure il coraggio di metterci le mani, ma costernata per l’enormità del lavoro che doveva svolgere, rimase lì  stupita come una scema.
Allora la formichina che ha nei campì la sua piccola casa, ben sapendo quanto fosse penoso quel lavoro e piena di compassione per le disgrazie capitate alla compagna del gran dio, mentre invece biasimava la crudeltà della suocera, si diede da fare a radunare da ogni parte tutte le schiere di formiche che abitavano quel paese, dicendo:
“Abbiate pietà, operose figlie della madre Terra, abbiate pietà e correte presto in aiuto di questa bella ragazza in pericolo, che è  la moglie di Amore!”.
Ed ecco che a ondate successive si precipitarono una dopo l’altra le schiere di quel popolo a sei zampe, e mettendocela tutta divisero grano dopo grano tutto il mucchio di sementi, separando e distribuendo con ordine tutte le specie; poi se ne andarono di corsa.
Al calar della notte Venere ritornò dal pranzo nuziale, mezza ubriaca, tutta profumata e inghirlandata di splendide rose. Vide la straordinaria diligenza di quel lavoro ed esclamò:
“Brutta delinquente! Questo lavoro non è opera tua, e non certo delle tue mani! Qui c’è entrato di sicuro colui al quale tu sei piaciuta, per la tua, anzi per la sua rovina”.
E così dicendo gettò a Psiche un tozzo di pane e se ne andò a dormire.
Intanto Cupido se ne stava tutto solo, chiuso e sotto vigilanza, in una camera isolata all’interno della casa, sia perché  non aggravasse la sua piaga con la sua sfrenata intemperanza, sia perché  non potesse incontrarsi con la sua bella. E così i due amanti trascorsero una notte tristissima, divisi e separati sotto lo stesso tetto. 

La seconda prova e l'aiuto della canna
Ma appena l’Aurora spinse innanzi il suo cocchio Venere fece chiamare Psiche e le disse:
“Vedi quel bosco, che si stende lungo le rive di quel fiume, e i cui arbusti più bassi si specchiano nell’acqua lì vicino? Là pascolano senza sorveglianza delle splendide pecore, che hanno la lana d’oro. Voglio che tu mi porti da lì al più presto, in qualsiasi modo tu possa procurartelo, un fiocco di lana di quel prezioso vello”.
Psiche si mise subito in cammino, non tanto per obbedire al comando ricevuto, quanto per trovare finalmente riposo ai suoi mali buttandosi giù dalla rupe nel fiume.
Ma di lì una verde canna, esile suonatrice delle musiche più soavi, sporgendo dal fume ispirata divinamente dal lieve mormorio di una dolce brezza, l’ammonì in tal modo:
“Psiche, perseguitata da tante sventure, non contaminare le mie acque sacre con la tua morte miseranda, e non avvicinarti proprio ora a quelle terribili pecore. Infatti, infiammate dalla vampa del sole cocente esse sono in calore e vanno soggette ad accessi di rabbia furiosa. e con le corna aguzze e con le fronti dure come sassi e persino con morsi avvelenati si avventano e arrivano a uccidere gli esseri umani. Ma finché il sole non avrà mitigato il suo calore e le bestie riposeranno nella calma della brezza fluviale, tu riposati sotto quel gran platano che si disseta con me alla stessa corrente. Quando poi le pecore,. calmata la loro rabbia, diventeranno mansuete, tu scuotendo le fronde del bosco lì vicino vi troverai impigliati nei rami intricati i bioccoli della lana d’oro”.  
In questo modo la canna semplice e umana insegnava la via della salvezza alla infelicissima Psiche. Ed essa non tardò ad obbedire mettendo in atto con ogni attenzione i consigli di cui certo non si sarebbe pentita, anzi li eseguì in ogni particolare, cosicché il furto fu facile ed essa portò a Venere il grembo colmo di bionda e soffice lana d’oro. 

La terza prova e l’aiuto dell’aquila
Tuttavia nemmeno di questa seconda terribile prova fu contenta la dea, la quale, aggrottando le sopracciglia, le disse con un amaro sorriso:
“Anche di questo fatto io so chi è l’autore clandestino. Ma adesso voglio subito sperimentare se tu sei davvero dotata di animo audace e di straordinaria prudenza. Vedi la cima di quell’erto monte, che sovrasta quella montagna altissima e dirupata? Da quella cima scaturiscono le acque oscure di una nera sorgente, e raccogliendosi in fondo alla valle vicina, scendono a irrigare la palude Stigia e ad alimentare la cupa corrente di Cocito. Tu devi salire fino al punto dove la sorgente scaturisce freddissima dalla terra e riportarmi questa piccola urna piena di quell’acqua”.
Così dicendo le consegnò un piccolo vaso di cristallo lavorato, aggiungendo ancor più tremende parole minacciose.
Psiche si avviò a rapidi passi per raggiungere la vetta di quel monte, sicura che là avrebbe trovato se non altro la fine della sua travagliata esistenza.
Ma quando giunse nelle vicinanze della cima, subito si accorse della mortale difficoltà dell’impresa. Infatti una rupe altissima, scoscesa e inaccessibile rovesciava dal mezzo di una spaccatura quell’acqua spaventosa che, penetrando per certi passaggi stretti e angusti, si precipitava fuori per le fenditure e scorreva giù lungo il declivio, cadendo invisibile nella valle vicina.
Accanto ad essa, a destra e a sinistra, le facevano la guardia dei terribile draghi che strisciavano e tendevano il collo negli anfratti della roccia, con gli occhi sempre aperti e le pupille eternamente intente alla luce.
Anche le acque, che avevano il dono della parola, cercavano di difendersi da se stesse gridando continuamente: “Vattene!”.  “Che fai?” “Stai attenta!” “Scappa...” “Farai una brutta fine!”
Psiche, pietrificata dinanzi a tante difficoltà, era lì presente col corpo ma incapace di servirsi dei suoi sensi, tanto che, atterrita dalla mole di un’impresa impossibile, era priva perfino di quell’unico sollievo che dà il pianto.
Ma la sventura di quell’anima innocente non sfuggì  agli occhi profondi della pietosa Provvidenza.
Infatti l’uccello regale del sommo Giove, l’aquila rapace, comparve all’improvviso ad ali spiegate. Si ricordava dell’antico onore fattole da Cupido, quando l’aveva scelta per rapire per conto di Giove il coppiere Frigio, e correndo ad aiutare al momento giusto la di lui sposa che si trovava in mezzo ai travagli volle onorare la potenza del dio. Scese dunque giù dalle regioni celesti per la strada riservata agli dei, e svolazzando davanti al viso della fanciulla le disse:
“Quanto sei ingenua, e ignara di queste cose! Credi forse di poter non dico rubarne una goccia, ma di poter solo toccare quell’acqua, santissima e tremenda insieme? Non vedi che sei in presenza delle acque temute dagli dei, e perfino dallo stesso Giove? Non hai mai sentito dire che gli dèi giurano per la maestà dello Stige, come voi per quella dei numi? Dammi dunque questa brocca!”.
E così dicendo gliela porta via stringendola tra gli artigli e librandosi rapidamente con tutta la larghezza delle sue grandi ali battenti in mezzo alle bocche aperte dei draghi armate di denti acuminati e tra le loro vibranti lingue trifide, attinge l’acqua, che cercava di sottrarsi minacciando e intimandole di andarsene prima di ricevere qualche danno. L’aquila tuttavia, affermando che andava ad attingere per ordine di Venere e che a lei doveva portare quell’acqua, riuscì, con quel pretesto, ad avvicinarsi con una certa sicurezza. 

La quarta prova. Psiche discende agli inferi
Così, presa gioiosamente la brocca piena d’acqua, Psiche andò subito a portarla a Venere. Ma neppure con questo poté rasserenare il volto infuriato della dea. Anzi, minacciandola ancora di volerla sottoporre a prove più gravi e più crudeli, con un ghigno infausto l’apostrofa in questo modo:
“Ormai devo proprio credere che sei una gran maga e capace di vere stregonerie, se hai potuto fare con tanta bravura quello che ti ho ordinato! Ma adesso, bamboletta mia, ti resta un altro ordine che dovrai eseguire: prendi questo vasetto”, e glielo porse, “e vai all’inferno, proprio nella stessa dimora infernale dello stesso Orco. Quando sarai là presenta il barattolo a Proserpina e dille: ‘Venere ti prega di mandarle un poco della tua bellezza, almeno quanta ne serve per una sola breve giornata. Perché quella che aveva l’ha tutta consumata e finita per curare il figlio ammalato’. E vedi di non fare tardi, perché devo mettermela sul viso prima di andare all’assemblea degli dèi”.
Allora Psiche si accorse di essere arrivata all’estremo della sfortuna, e capì che la si mandava apertamente alla morte. E come no? Veniva costretta ad andare coi suoi propri piedi sino al Tartaro e presso gli dei Mani.
Senza indugio si avviò verso una torre altissima, con l’intenzione di buttarsi giù dalla sua cima. Quella le sembrava la via più breve e più facile per arrivare all’inferno.
Ma improvvisamente la torre cominciò a parlarle in questo modo:
“Disgraziata! Perché vuoi ammazzarti buttandoti giù? Perché senza reagire ti lasci sopraffare da questa terribile ma anche ultima prova? È chiaro che, se la tua anima si sarà separata dal corpo, te ne andrai diritta nel profondo Tartaro, ma di là poi non potrai tornare per nessuna ragione. Quindi ascoltami.
Non lontano di qui si trova Sparta, una bellissima città dell’Acaia. Ai confini di essa devi cercare un promontorio di nome Tenaro, che si trova in un luogo nascosto e fuori mano, Lì si apre una spaccatura che porta al regno degli Inferi, e attraverso le sue porte spalancate si intravede un cammino inaccessibile. Tu supera la porta e avviati per quella strada; arriverai attraverso questo cunicolo alla reggia dell’Orco.
Ma non dovrai andare là, in quelle tenebre, a mani vuote: porta in entrambe le mani una focaccia d’orzo impastata con vino e miele, e mettiti in bocca due monetine.
Quando avrai percorso buona parte di quella strada destinata ai morti incontrerai un asino zoppo carico di legna, con un mulattiere, anch’egli mal messo, il quale ti pregherà di raccogliergli un po’ della legna di fascina che gli va cadendo per la via. Tu non dargli retta e senza rispondere passa oltre in silenzio. Poco dopo giungerai al fiume dei morti, il cui traghettatore è Caronte, che chiede per prima cosa il prezzo del passaggio, poi con la sua barcaccia di cuoio rappezzato traghetta i passeggeri nell’altra riva. Sì, infatti anche tra i morti è viva l'avarizia! Caronte infatti che è  l’esattore dell’inferno, un dio certamente molto grande, non fa nulla per nulla; perciò anche il povero quando muore deve provvedersi dei soldi per il viaggio, perché se non si presenta coi soldi in bocca non gli danno neppure il permesso di crepare.
A questo laido vecchio tu darai come nolo una delle monetine che porti in bocca, ma fa’ in modo che la prenda lui stesso con la sua mano.
Poi, quando starai attraversando la lenta corrente, vedrai un vecchio morto galleggiare nell’acqua: ti tenderà le braccia scarne, pregandoti di accoglierlo dentro la barca. Tu però  non lasciarti prendere dalla pietà, che non è consentita laggiù.
Passato il fiume incontrerai poco più in là  alcune vecchie intente a tessere una tela, che ti chiederanno di dargli una mano: ricordati che non puoi fare neanche questo. Tutte queste cose, è necessario che tu lo sappia, sono tutti tranelli di Venere allo scopo di farti lasciare una delle focacce che avrai in mano. E non credere che questa delle focacce sia una cosa di poco conto: perché se tu ne perderai una sola non ritomerai mai più alla luce. Infatti c’è un enorme cane, un mostro con tre teste enormi, che con i suoi latrati assordanti rintrona le orecchie dei morti terrorizzandoli, anche se non può far nulla; e in tal modo fa la guardia alla soglia e al nero atrio di Proserpina, e custodisce la vuota dimora di Dite.
Così senza difficoltà giungerai dinanzi a Proserpina. Essa ti accoglierà con benignità e cortesia, anzi ti inviterà perfino a sedere e ristorarti con un buon pranzo. Tu però siediti a terra, mangia un tozzo di pane nero che chiederai in elemosina, poi riferisci il motivo per cui ti trovi lì, e preso in consegna quello che ti verrà dato prendi la via del ritorno. Placa nuovamente il cane con quell’altra focaccia, dài l’altra moneta all’avaro traghettatore e, ripassato il fiume, ripercorri lo stesso tragitto dell’andata, e tornerai a rivedere questo coro di stelle celesti.
C’è un’ultima raccomandazione, ed è la più importante: non aprire e non guardare dentro al vasetto che porterai, e comunque non essere troppo curiosa riguardo al tesoro di divina bellezza che è nascosto lì dentro”.
Così la torre profetica mise fine con queste parole alla sua funzione d’oracolo.
Psiche non indugiò: andò verso la porta Tenaria, fornendosi delle monetine e delle focacce, secondo le istruzioni ricevute, e si calò nel cunicolo che porta agli Inferi. Superò senza parlare l’asinaio zoppo, diede la monetina al barcaiolo, non diede retta al morto che galleggiava, spregiò le insidiose preghiere delle tessitrici, placò con l’offerta di una focaccia il cane rabbioso e orrendo, e così poté introdursi nella dimora di Proserpina. Una volta giunta là non volle servirsi della morbida seggiola, e non accettò i cibi squisiti che le venivano offerti dalla dea, ma si sedette per terra ai suoi piedi, e mangiando il suo pane nero riferì la richiesta di Venere.
Prese subito il vasetto che Proserpina aveva riempito e rinchiuso senza farsi vedere; poi offrendo al momento giusto la seconda focaccia chiuse la bocca al cane che latrava, diede quindi la seconda monetina al barcaiolo e risalì dagli inferi con passo più  disinvolto di prima.
Così rivide e si prostrò ad adorare la luminosa luce del giorno. Ma sebbene avesse fretta di portare a termine il suo mandato, fu presa da una temeraria curiosità.
“Ma come”, disse, “sarei così sciocca da portare la divina bellezza senza servirmene neppure un po’, magari per rendermi più bella agli occhi del mio amante?.”
E così dicendo aprì il vasetto. Dentro, purtroppo, non c’era proprio niente e neppure l’ombra della bellezza! C’era solo del sonno, un sonno infernale e proveniente davvero dallo Stige, che appena liberato dal coperchio la assalì: una densa nebbia soporifera si diffuse per tutte le sue membra e si impadronì di lei: essa cadde a terra e stramazzò in mezzo alla strada, proprio nel posto dove aveva posato il piede. E così restò là a giacere immobile, simile in tutto a un cadavere sepolto nel sonno della morte. 

Amore va in aiuto di Psiche
Frattanto Amore, al quale si era cicatrizzata la ferita, non potendo più sopportare l’assenza della sua Psiche, scappò attraverso una finestra altissima della stanza dove era tenuto prigioniero, e siccome durante il sonno gli si erano rinvigorite le ali, volando più veloce che mai accorse in aiuto alla sua diletta. Subito le tolse di dosso tutto quel sonno e con ogni attenzione lo rinchiuse per bene nell’apposito vasetto, poi svegliò Psiche con una leggera e innocua puntura della sua freccia e le disse.
“Ecco che di nuovo, poverina, sei caduta vittima della tua curiosità! Ma adesso pensa a portare a termine il comando di mia madre, per il resto me la vedrò io!"
Disse così, e se ne andò con un volo leggero.
Psiche allora si affrettò a portare a Venere il dono di Proserpina.
Cupido intanto, consumato dall’eccesso del suo desiderio, tutto triste in volto, temendo molto l’improvvisa castità  di sua madre, pensò di ritornare alle sue vecchie abitudini.
Perciò penetrò nel centro del cielo con le sue ali veloci, e si mise a supplicare il grande Giove, e a perorare la sua causa. Giove lo prese affettuosamente per la guancia, lo avvicinò  in tal modo al suo volto, lo baciò e gli disse:
“Anche se tu, mio signor figlio, non mi hai mai reso quell’omaggio che mi è dovuto per decreto degli dei, ed anzi hai ferito più volte con i tuoi colpi questo mio petto, che regola le leggi della natura e i movimenti degli astri, e contravvenendo alle leggi, e in modo particolare alla legge Giulia10 e alla pubblica moralità hai offeso il mio onore e la mia reputazione con i più sconci adulteri, trasformando vergognosamente il mio volto sereno in serpente, in fuoco, in uccello, in animale da mandria, tuttavia, in considerazione del fatto che sei cresciuto tra le mie braccia, e per non venir meno alla mia ben nota bontà, farò tutto quello che tu vuoi. Stai attento però ai tuoi rivali, e se sulla terra c’è in questo momento qualche fanciulla particolarmente bella, sai bene qual è il tuo dovere: portarmela qui in cambio del piacere che ti faccio!”.
Così parlò Giove, e subito diede ordine a Mercurio di convocare il concilio di tutti gli dèi, avvertendo che, se fosse mancato qualcuno all’adunanza dei Celesti, sarebbe incappato in una multa di diecimila sesterzi.
Per il timore di questo castigo si riempì subito tutto il teatro delle riunioni del cielo, e Giove, dall’alto del suo trono sublime, così parlò:
“O dei coscritti nell’albo delle Muse, tutti certamente sapete che questo ragazzo è venuto su crescendo fra le mie mani. Perciò mi è sembrato giusto frenare un po’ i suoi primi ardori giovanili; ormai si è abbastanza compromesso con adulteri e scandali di tutti i generi che sono sulla bocca di tutti. È meglio pertanto che si tolga di mezzo ogni occasione e che con nozze regolari venga frenata la sua esuberanza giovanile.
Egli si è già scelta la sua ragazza, e l’ha anche privata della verginità: se la tenga, se la sposi, e tra le braccia di Psiche goda eternamente l’amore”.
Poi si volse a Venere e le disse:
“E tu, figlia, non affliggerti e non temere che questo matrimonio con una mortale rechi danno al tuo illustre casato. Io farò subito in modo che le nozze non siano tra sposi di condizione diversa, ma siano legittime e conformi al diritto civile”.  
E subito ordinò a Mercurio di andare a prendere Psiche e di portarla in cielo.
Poi le porse una coppa colma di ambrosia e le disse:
“Bevi, Psiche, e sii immortale! Amore non sarà mai sciolto dal vincolo che lo 
unisce a te. Da oggi voi siete sposi per tutta l’etemità”.  

Le nozze di Psiche con Amore
Subito dopo venne servito un ricco pranzo di nozze. Lo sposo era posto sul letto più alto, e tra le sue braccia teneva Psiche.
Poi veniva Giove con la sua Giunone, e poi di seguito, in ordine, tutti gli altri dei.
Fu offerto il nettare, che è il vino degli dei: a Giove lo serviva quel pastore fanciullo, suo coppiere, agli altri Bacco. Vulcano cuoceva il pranzo, le Ore spandevano tutt’intorno una pioggia di rose e di altri fiori colorati, le Grazie spandevano profumi e le Muse facevano risuonare i loro canti armoniosi. Poi Apollo cantò  accompagnandosi con la cetra, Venere danzò graziosamente in una danza leggiadra: si era formata come un’orchestra, dove le Muse cantavano in coro e suonavano i flauti, mentre Satiro e Panisco soffiavano nella zampogna.
Così Psiche divenne sposa di Amore secondo le prescrizioni del rito, e quando il tempo per il parto fu terminato nacque loro una figlia che noi chiamiamo Voluttà.” 











Anaïs Nin

Racconti erotici



Ad un certo punto, un misterioso cultore della letteratura erotica, chiese ad Anais Nin di scrivere dei racconti molto spinti in cui, specificò, ci fosse più sesso che filosofia. E lei, un po' per la necessità di guadagnare, un po' forse per sfida e divertimento, accettò la sua proposta. Nacquero così tutta una serie di brevi storie (poi riunite nei volumi intitolati "Il delta di Venere" e "Uccellini") in cui la giovane scrittrice affronta tutta la gamma delle sfumature erotiche possibili. Dall'incontro saffico al voyeurismo, dall'incesto tra fratelli e sorelle, alle avventure di una serie di disinvolte modelle alle prese con pittori giovani e vecchi dai voraci appetiti sessuali. C'è la storia di Bijou, regina delle puttane, convinta che "vivere costantemente con un pene dentro rende affascinante una donna" e quella di Lilith "sessualmente fredda", ma che il marito riesce a risvegliare fingendo di somministrarle una potente dose di cantaride, portandola al desiderio ossessivo di sperimentare ogni genere di afrodisiaco esistente. Com'è evidente si tratta di storie variopinte e trasgressive, a volte addirittura surreali, che Anais Nin rivendica quasi con orgoglio nel racconto intitolato "Marianne" ( "Mi chiamerò la madame di una casa di prostituzione letteraria, la madame di un gruppo di scrittori affamati che producevano letteratura erotica per venderla ad un collezionista. Io fui la prima a scrivere per lui..." ) raggruppando i propri sogni, le fantasie e le curiosità più inconfessabili senza falsi pudori, ma guidata dal piacere puro di fantasticare liberamente attorno ad un tema che certo le era congeniale. Diversamente non avrebbe riversato tanta bruciante passione nelle pagine del diario in cui il suo amore per Henry Miller diventa protagonista assoluto ( "Henry & June" - Bompiani). Ma è infatti, proprio raccontando in prima persona che la scrittrice riesce a sviscerare appieno tutta la carica sensuale che la contraddistingue. I brani che seguono sono così intensi e accorati, così vibranti di desiderio e piacere da divampare come fuochi a distanza di settant'anni e nonostante le numerose riletture.
La sollevò dal letto e la depose sul pavimento, appoggiata alle mani e alle ginocchia, e le disse: "Muoviti". Louise incominciò a muoversi carponi lungo la stanza, coi lunghi capelli biondi che la coprivano per metà, e il peso della cintura che le faceva inarcare la schiena. Allora lui le si inginocchiò dietro e inserì il pene, con tutto il corpo sopra di lei, muovendosi a sua volta sulle ginocchia ferree e le braccia lunghe. Dopo che l'ebbe goduta da dietro, fece scivolare la testa sotto di lei in modo da poter succhiare i suoi seni generosi, come fosse un animale, trattenendola in questa posizione con le mani e la bocca. Ansimavano e si contorcevano entrambi, e solo allora egli la sollevò, la mise sul letto, e alzò le gambe per appoggiarsele sulle spalle. La prese violentemente e furono scossi dai tremiti mentre venivano insieme Dal racconto "Artisti e modelle" - IL DELTA DI VENERE - Bompiani.


Il testo è di Anais Nin.
1) c'è differenza tra sesso e amore?
2) Si integrano a vicenda , o possono mantenersi separati?
3) Credete che sia un atteggiamneto simile tra questo scritto e quelli che vediamo in tv.
4) passione e desidero, amore, eros, vanno integrati in questo brano enei libri di Anais Nin, o sono solo sensazioni momentanee e forti?















Nathalie Sarraute

PARIGI — Era nata con il secolo: Nathalie Sarraute, la 'Grande Dame du Nouveau Roman', uno dei grandi miti della letteratura francese, si è spenta ieri a 99 anni nella sua casa parigina alle spalle del Trocadero. Minuta, chiusa in se stessa, rigorosa nel rifiutare le interviste e le mondanità, si era abituata da decenni alla solitudine. «Sto bene solo davanti al silenzio della pagina bianca», mi disse l'ultima volta che la incontrai, un anno fa. Negli ultimi tempi, come ansiosa di recuperare un contatto con gli altri che le era sempre mancato, era tuttavia apparsa più socievole, più sorridente. Figlia intellettuale di Proust e di Joyce, fu la pioniera del 'nouveau roman' con un libro, 'Tropismes', che alla sua pubblicazione nel 1939 cadde nella più assoluta indifferenza e che era destinato invece a lasciare una impronta indelebile nella storia delle lettere. Nata il 18 luglio 1900 a Ivanovo, nei pressi di Mosca, con il nome di Natacha Tcherniak, arrivata in Francia con la madre a 2 anni in seguito al divorzio dei genitori, visse per un lungo periodo fra i due paesi. Completò gli studi in Francia; dopo un soggiorno a Londra e Berlino che le permise di perfezionare la conoscenza dell'inglese e del tedesco, si laureò in giurisprudenza. Per qualche anno affrontò, senza il minimo entusiasmo, la carriera di avvocato. Quindi, senza ripensamenti, abbandonò le arringhe e il Foro di Parigi per dedicarsi esclusivamente alla letteratura. Citiamo fra le sue opere 'Ritratto di uno sconosciuto', pubblicato nel 1949 con una prefazione di Jean-Paul Sartre. Quindi, nel 1956, 'L'era del sospetto'. Infine nel 1962 'I frutti d'oro', il romanzo che le valse la consacrazione ufficiale con l'attribuzione del Prix International de Littérature. 


Nella foto: la scrittrice Nathalie Sarraute

Nell'ottobre del 1997 è uscita la sua ultima opera, 'Ouvrez!', che è stata rappresentata anche in teatro. «I protagonisti _ ci disse in una intervista _ sono le parole. Fra di loro è stata innalzata una immensa parete che le divide in due gruppi. Da una parte possono stare solo le parole che hanno dimostrato di saper ricevere come si conviene i visitatori. Le altre, le parole di cui non ci si può fidare, sono imprigionate dietro la parete: e siccome quest'ultima è trasparente, possono vedere quel che succede dall'altra parte. Capita, a volte, che le parole escluse tentino di partecipare, di intervenire: ma la parete è invalicabile... Ecco dunque che in certi momenti non ce la fanno più e si mettono a gridare: 'Ouvrez! Ouvrez!'». Nathalie Sarraute era ormai l'unica testimone rimasta in vita del mondo di Beckett e di Ionesco, di Sartre e di Camus. Con Ionesco e Robbe-Grillet aveva addirittura calcato le scene a New York, Londra e Parigi, con una pièce di Virginia Woolf, 'Fresh water'. Il suo ritmo di lavoro era quasi maniacale: «Ho scritto tutti i giorni, ogni mattina fra le 10 e le 12, per tutta la vita. Negli ultimi tempi ho deciso di tenermi libera la domenica, cosa che prima non facevo: con mio marito infatti si andava in campagna nei weekend, dalle parti di Mantes. Ma anche lì, puntualmente, mi mettevo a tavolino», raccontava. Per anni, fin da quando era giovanissima, il suo luogo di lavoro preferito è stato il tavolino di un caffè scelto a caso: «Come Sartre, Simone de Beauvoir e tanti altri andavo a scrivere in un bar perché non avevo il riscaldamento in casa. Dopo ho continuato per altri motivi: lì stavo tranquilla, nessuno poteva chiamarmi al telefono, nessuno veniva a disturbarmi. Al tempo stesso adoravo quel rumore confuso di vita che mi stava attorno. I caffè francesi sono posti civili: ti siedi, ordini qualcosa, e puoi restare tutto il tempo che vuoi». 



Nouveau roman

Originariamente chiamato anti-romanzo , tra gli altri, Jean-Paul Sartre , si è sviluppata nel 1950 principalmente intorno a quegli scrittori pubblicati da Les Editions de Minuit 
Le caratteristiche principali del nouveau roman erano trama poco o niente, un focus sulla descrizione ripetuta di dettagli, la mancanza di un narratore onnisciente, il rifiuto del romanzo di idee , rifiuto di ogni impegno politico, la morte dell'idea di caratteri, un focus sulla pensiero o, più in particolare, di coscienza, piuttosto che l'azione, e la ripetizione. Come Robbe-Grillet dirà gestes et objets seront là avant d'être quelque chose [gesti e gli oggetti saranno lì prima di esserequalcosa]. Due testi chiave, quasi-manifesti, sono stati Robbe-Grillet 's Pour un Nouveau Roman (Per un nuovo romanzo) e Nathalie Sarraute 's L'ère du soupçon (L'età del sospetto) .
Vi è ora un post-nouveau roman , anche se molto meno chiaramente definito, che sembra, in alcuni casi, per mescolare il nouveau roman e il romanzo poliziesco, in altri sembra solo essere un romanziere un po’ non convenzionale, che ha iniziato a scrivere a partire dal 1980. Si può (o non può) includere Perec Darrieussecq Echenoz Nothomb Houellebecq e altri. 
Può anche essere simile agli scrittori americani X post-post-modernism/Generation